“Gare du Nord” di Claire Simon arriva al Concorso Internazionale del 66 Festival di Locarno. La regista ci porta a Parigi nei corridoi della vera Gare du Nord per farci conoscere i quattro personaggi della sua storia, che in apertura ci aveva irrigidito con uno shooting da ennesimo finto documentario. Invece no, seguiamo i quattro mentre transitano nell’enorme stazione francese sino a quando le loro esistenze si incroceranno e toccheranno.
Ismael e Mathilde sono i primi a chiacchierare e conoscersi, lui intervista i passanti per la tesi del dottorato di ricerca, lei invece insegna storia alla Sorbona ed è in transito pressoché quotidiano per lo scambio ferroviario. Una parola, un caffè, qualche consiglio e alla fine si innamorano nonostante le loro differenze e segreti. Poi ci sono Sacha e Joan, il primo alla ricerca della giovane figlia scomparsa la seconda in costante pendolarismo tra diverse città a discapito della famiglia e della propria felicità.
La stazione, luogo dove solitamente ci si sfiora senza socializzare o prestare attenzione all’altro, diverrà invece per queste persone un punto particolare e di incontro, occasione inattesa per cambiare qualcosa nelle proprie routine. Crocevia di storie, di vite e di persone di ogni dove, interessante punto di osservazione e ottima occasione per fotografare una società, la Gare du Nord è un microcosmo come spesso accade nei grandi centri e la regista decide di convivere qualche scorcio con noi.
“Gare du Nord” parte così, in modo bizzarro e intrigante, complice quella sua luce calda, dorata, che avvolge e protegge i protagonisti e cattura lo spettatore sempre più curioso di scoprire cosa sia in grado di fare quel luogo alle vite di queste quattro persone tanto simili a molti di noi. Mi rilasso perchè il film appare solido e curioso, ma proprio a quel punto qualcosa accade e l’incantesimo si spezza: la storia rallenta, i dialoghi perdono di fascino e si rimane in attesa di qualcosa, di una evoluzione, che tarda ad arrivare.
Tutti tornano tristi, persi, annientati perchè la realtà ha preso il sopravvento, la solitudine ha ritrovato la via di casa e la cosa diviene contagiosa, perchè colpisce anche noi al di qua dello schermo. L’impressione che si diffonde nel buio della sala è che primo e secondo tempo siano stati girati in momenti differenti con intenti diversi e che siano stati messi insieme senza sufficiente tempo per meditare sul montaggio, col risultato che sono rimasti slegati.
Voto 5 e 1/2. Sufficienza all’orizzonte per premiare i primi 45 minuti che riescono da soli a bilanciare le debolezze che seguono. Tutto, infatti, rimane sospeso e alla fine ci rendiamo conto di aver visto immagini senza una vera storia.
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”
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