Ci sono film che per una serie interminabile di imprevisti riescono a lasciare le sale cinematografiche prima che voi riusciate ad entrarvi. Non sto parlando delle  “meteore”, quelle pellicole che non riescono a sopravvivere al primo fine settimana di programmazione, bensì di quelle che rimangono in città per un tempo tendente ad infinito, ragione per cui proprio non riuscite a capacitarvi di come vi siano sfuggite. Un motivo c’è: è il vostro angelo custode che sta facendo egregiamente il suo “lavoro”. A me è capitato con questa opera, diretta niente meno che da una promettente figlia d’arte, Ami Canaan Mann, esatto (!), la figlia di quel Michael Mann che ci ha regalato “Heat”, “Collateral”, “Miami Vice” e via dicendo.

Complice il telecomando, ho infine visto questa pellicola tanto osannata dalla carta stampata (soprattutto dopo la sua presentazione alla 68° mostra del cinema di Venezia) e poco chiacchierata dal pubblico una volta uscita. Un cast notevole (Sam Worthington, Jeffrey Dean Morgan, Jessica Chastain) per l’ennesimo thriller ambientato in quel sud degli Stati Uniti (siamo in Texas) popolato da gente dura, rigida, molto guardinga probabilmente per il clima impietoso e la natura ostile che rendono la loro quotidianità più faticosa di quella di altri. Siamo a Texas City, in una cittadina mai sentita prima (per lo meno da questo lato dell’oceano), in cui una serie di omicidi irrisolti portano Brian Heigh dalla sezione omicidi di New York sino a questa landa desolata e alle sue misteriose paludi. Impersonato da Jeffrey Dean Morgan, il detective è un devoto cristiano ed un acuto osservatore disposto a sacrificare sé stesso per portare a termine la propria missione. Il suo partner è Mike (Sam Worthington), un giovane alle prese con una collega/ ex-moglie a cui è affidata la contea limitrofa.
Intuibile che i due uomini abbiano metodi e temperamenti opposti e che la fine del matrimonio di Mike si intrometta nelle investigazioni, perché – ovviamente – solo il burrascoso trio unito per l’occasione riuscirà a risolvere il caso! Schema classico, spunto creativo tratto da “fatti realmente accaduti” (oramai è una moda…), soggetto che catalizza qualsiasi spettatore (le vittime sono tutte giovani donne, abusate sia in vita sia dopo la morte), il tutto nobilitato da un palese rimando al viaggio interiore di uno dei protagonisti mentre si addentra nelle paludi. Il successo è ricercato, anelato, si respira in ogni inquadratura, che peraltro dimostra una notevole dimestichezza con gli strumenti del mestiere, al punto da riuscire ad incollarci alla seggiola.

Si, perché non possiamo eccepire nulla alle abilità in regia di Ami, né alla recitazione sofferta e sofferente dei protagonisti (convincenti nei panni che Ami ha fatto loro indossare), la fotografia poi ci fa quasi percepire l’alta umidità che c’è nell’aria, ma il film risulta piatto. Sprovvisto di adrenalina nonostante sia un poliziesco, è lento, scontato e finisce con annoiare molti, concedendo qualsiasi distrazione il che, con l’avvento degli smartphone, significa ritrovarsi col film che diviene un fastidioso sottofondo alle vostre chat.

Voto: 6. Ben confezionato, ma scolastico e si sente troppo il peso della famiglia nell’aria.

Le paludi della morte - Trailer ufficiale italiano