Paolo Cognetti ha il dono di una scrittura che affascina, colpisce, resta nella memoria. Sono rimasto colpito dalla sua crescita, dai primi libri fino a “Sofia veste sempre di nero“, che continuo a trovare bellissimo. E Paolo è anche di una squisita gentilezza, ha accettato di fare due chiacchiere con noi e di toglierci qualche curiosità sulla sua produzione artistica, più variegata di quanto si immagini!
Buongiorno Paolo, e grazie – come prima cosa – per la disponibilità a rispondere a qualche nostra domanda. Ho promesso di non domandarti “come mai i racconti” e “come mai le ragazze”, e non intendo infrangere questo giuramento. Vorrei partire quindi da un aspetto della tua produzione forse meno noto: i documentari. Ne vogliamo citare uno a cui, per diversi motivi, tu sia particolarmente affezionato?
Molto volentieri. Il lavoro a cui sono più legato è la serie Scrivere/New York, del 2004. Fu anche il mio primo viaggio oltreoceano. Ero cresciuto divorando letteratura americana, insieme a un amico da qualche anno giravo documentari e quegli incoscienti di minimum fax ci proposero di andare a New York per tre mesi, a realizzare nove ritratti di scrittori. Alcuni erano tra i miei preferiti: Rick Moody, Jonathan Lethem, A.M. Homes, Nathan Englander. Si trattava di passare qualche giorno insieme, intervistarli in casa e poi farsi guidare nei loro posti preferiti di New York. Ne sono uscite nove città diversissime. Abbiamo girato per tre mesi senza un giorno di riposo, scoprendo New York nel momento stesso in cui la riprendevamo, in uno stato costante di meraviglia. Sono andato a vedere il baseball con Moody, a mangiare cinese e messicano con Englander e a esplorare le fabbriche abbandonate con Shelley Jackson. Che cosa puoi chiedere di più a un lavoro?
Ti affascina l’idea di lavorare ad una sceneggiatura di un “lungo” in futuro? E’ una ipotesi che consideri realistica? Devo confessarti che nel corso della lettura di “Sofia si veste sempre di nero”, mi era capitato di immaginare che gran film se ne sarebbe potuto trarre…
No, non mi affascina per niente. Io ho studiato da sceneggiatore, e ho scoperto che ci sono almeno tre aspetti per me molto frustranti in quel mestiere: uno, che quello che scrivi difficilmente diventerà un film; due, che ti scontri di continuo con quello che non si può fare, e che ti limita in ogni scelta narrativa; tre, che qualcun altro prenderà la tua storia e ne farà quello che gli pare (e non sempre è un regista geniale, più spesso è solo un produttore senza soldi). Ma il motivo più importante è che per uno scrittore le storie nascono dalla lingua, benché le mie sembrino così piene di immagini; in realtà io credo siano strettamente legate alla parola. E forse è così per tutti: non sono mai esistiti grandi scrittori-sceneggiatori, si vede che sono due linguaggi profondamente diversi. Invece sarei contento se qualcun altro provasse a trarre un film da Sofia, vorrei proprio vedere che cosa ne viene fuori (io propongo l’attrice: Natalie Portman).
Molti tuoi documentari sono dedicati a grandi autori newyorkesi, e la tua predilizione per la Grande Mela è attestata anche dalla guida letteraria “New York è una finestra senza tende” (Laterza). Vorremmo tre-titoli-tre di romanzi newyorkesi che non possono mancare sui nostri scaffali. (non è una domanda sui racconti o sulle protagoniste dei tuoi scritti, ma ho sentito comunque distintamente una mezza parolaccia)
Piccoli contrattempi del vivere di Grace Paley (l’edizione Einaudi che raccoglie i suoi tre libri) è quello che cattura meglio di tutti le voci della strada di New York, la sua anima che è ebraica, irlandese, italiana, afroamericana, e per questo motivo è un’anima chiassosa, e ne fa una città in cui le persone parlano, parlano, parlano, parlano tutto il tempo (quando non cantano o pregano). Quella voce collettiva nei racconti di Grace Paley risuona meravigliosamente.
La Trilogia di New York di Paul Auster che sta a New York, non saprei, come I miserabili a Parigi o Delitto e castigo a San Pietroburgo: nella mia testa è il grande classico newyorkese, quello che fissa una volta per tutte quella strana città inesistente che è la versione letteraria della città reale. New York, anzi Manhattan, da Paul Auster in poi sarà per sempre una città labirintica e noir.
E poi Motherless Brooklyn di Jonathan Lethem perché volevo un romanzo che raccontasse l’altra parte del fiume, quella che amo di più, dove l’anima della New York di Grace Paley è emigrata quando Manhattan è diventata una città borghese. Chissà come mai anche questo libro ha una trama gialla, benché nella mia memoria la sua trama sia davvero un elemento trascurabile. È un affresco. Lethem l’ha definito “il mio canto d’amore per Brooklyn”. È proprio così.
Nel consigliare i tuoi libri, ho sempre la tentazione di definirti un vero “scrittore di personaggi”, nel senso che le tue creature letterarie superano davvero il limite fisico delle pagine e accompagnano la vita del lettore. Uno mi incuriosisce in particolare e mi è sembrato ricorrente: Pietro. Ce ne racconti qualcosa?
A un certo punto, dopo le varie voci sperimentate in Manuale per ragazze di successo, ho smesso di scrivere in prima persona, perché mi sembrava un livello di finzione intollerabile. L’idea di travestirsi da personaggio, pretendere di essere lui, simularne i pensieri e perfino il modo di parlare. Naturalmente tutta la narrativa è finzione, perciò il discorso può sembrare assurdo ma così è stato per me: ho trovato una mia forma di onestà nella terza persona, nell’osservare un personaggio da fuori pur essendo emotivamente molto vicino a lui, ed è lo sguardo che sto cercando di portare avanti. Però, certe volte, alcune storie continuano a nascere con una prima persona che so essere sempre la stessa, quella di un giovane uomo molto simile a me, che vuole fare lo scrittore e ha vissuto più o meno le cose che ho vissuto io. Quella voce la sento onesta, mia. Perciò mi sono detto: se è sempre la stessa, perché dargli tutte le volte un’identità diversa? Così è nato il personaggio di Pietro. Per adesso compare in tre racconti: a dodici anni legge un sacco di libri e se ne va in montagna con sua madre, a diciannove si innamora di una ragazza e della circonvallazione di Milano, a ventisette incontra Sofia a New York, dov’è andato a vivere con il suo migliore amico. Non credo che sia finita qui. Mi piace molto l’idea di portarmelo dietro da un libro all’altro, come faceva Hemingway con Nick Adams.
Ultima e inevitabile domanda: chi ti apprezza ha gioito per la candidatura al Premio Strega. Sinceramente: te lo aspettavi?
Un po’ sì. Ho la fortuna di pubblicare con un ottimo editore, che è piccolo ma di qualità riconosciuta, e questo conta molto per la selezione al premio. E sono fiero che minimum fax quest’anno abbia deciso di portarci me, è una scelta che ha tanti significati: è il terzo libro che facciamo insieme, sono un autore cresciuto nel “vivaio” e sono contento di restare dove sono, perché lavoriamo molto bene insieme. Essere nei dodici dello Strega per noi ne è una conferma, non una medaglia da appuntarsi al petto ma una buona dose di entusiasmo per andare avanti.
Dici Alfonso e pensi alla sua amata Triestina, alla sua biblioteca (rigorosamente ordinata per case editrici) che cresce a vista d’occhio, alla Moleskine rossa sempre in mano e alla adorata Nikon con la quale cattura scorci di quotidianità, possibilmente tenendo il corpo macchina in bizzarre posizioni, che vengono premiati ma non pensiate di venirlo a sapere. Se non vi risponde al telefono probabilmente ha avuto uno dei tanti imprevisti che riuscirà a tramutare in un esilarante racconto di “Viva la sfiga!”. Perché lui ha ironia da vendere ed un vocabolario che va controcorrente in questo mondo dominato dagli sms e dagli acronimi indecifrabili. Decisamente il più polivalente di tutti noi dato che è… il nostro (e non solo) Blogger senior che con il suo alfonso76.com ha fatto entrare la blog-o-sfera nella nostra quotidianità.