Cannes 2013 – Recensione del film in costume Michael Kohlhaas

Siamo alle battute conclusive della 66° edizione del festival del cinema e qui a Cannes iniziamo a parere degli zombie, ci sentiamo quindi a nostro agio se per un paio di ore torniamo indietro di qualche secolo, vaghiamo per una Europa rurale e seguiamo l’epica storia di un commerciante di cavalli, benestante, rispettato, amorevole marito e padre che un giorno vede crollare tutto il suo mondo. Questa è la storia di Michael Kohlhaas.

Libermente ispirata al testo tedesco di Heinrich Wilhelm von Kleist, liberamente adattato dal regista Arnaud des Pallières alla realtà francese del 1600. Torniamo quindi indietro di qualche secolo, indossiamo costumi e adottiamo una lingua differente e ci immergiamo in una storia incentrata sul rispetto, l’uguaglianza e la giustizia, perché il nostro protagonista è disposto a morire pur di ottenere quella riparazione al torto subito che gli è stata negata per capriccio di un ricco Signore.

© Festival de Cannes

Le prime inquadrature ci inquietano, troppi i riferimenti alla cinematografia di Refn in cui, tra l’altro, spesso vi ha preso parte il protagonista Mads Mikkelsen, ma per nostra fortuna ci discostiamo quasi subito, anche se ogni qualvolta ci troviamo di fronte ad un regista con forte propensione alla contaminazione di generi e con aspirazioni artistiche, per qualche strana ragione, ci dobbiamo sorbire una pellicola scevra di dialoghi, ricca di panorami, supportata solo dai sibili di madre natura.

Ora, sentire per due ore i rumori del vento procurano un mal di testa non indifferente, soprattutto se siamo all’ultima proiezione della giornata e ciò nonostante abbiamo scientemente deciso di vedere un’opera la cui trama non fosse propriamente nelle nostre corde. Potremmo definirlo un revenge movie indossando palandrane d’epoca, in sella a meravigliosi destrieri, immersi nella incontaminata e rumorosa -appunto- natura, per sentirci un po’ Braveheart.

© Festival de Cannes

Il film, purtroppo, nonostante un protagonista dalla vichinga bellezza, che da sola riesce a riempire tutto lo schermo e il cui sguardo provoca soggezione, e la piccola parte di Bruno Ganz, la pellicola non affascina. Poco accade, molto dovrebbe essere il dramma ma rimane tutto sullo schermo senza creare un ponte con noi al di qua, che quindi fatichiamo a non assopircii. La trama, infatti, non subisce alcuno scossone: il nostro protagonista non riesce a scendere a compromessi e perseguendo l’ideale di giustizia uguale per tutti vivrà una lunga ed estenuante caduta sino alla inesorabile fine.

Il target a cui questo lavoro è destinato ad essere di nicchia, ossia solo quelle persone alla ricerca una extravaganza, temprate da opere poco ritmate ma ricche di particolari che saranno spunto di discussione. Io ho bisogno di una maggiore quantità di battute e di un ritmo più serrato, quindi personalmente non mi ha fatto impazzire, ma posso comprendere il suo fascino. Mi stupirebbe, comunque, se riuscisse ad ottenere i premi più ambiti.

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