Il titolo di questo film fa riferimento al protagonista Saleem e ai 1.000 altri bambini nati intorno alla mezzanotte del 15 agosto 1947, data della proclamazione di indipendenza dell’India. Ma è davvero una faticaccia arrivare alla fine dei 140 minuti di proiezione: non siamo infatti di fronte a un potente affresco storico sulla fine del colonialismo inglese, seguito dalla rivalità fra Indiani musulmani e indù prima, e dalla guerra fratricida fra Pakistan e Bangladesh. Si tratta piuttosto di una bizzarra saga familiare trasformata in un colorato fumettone condito da stravaganti risvolti fantasy.
* attenzione segue sinossi ricca di dettagli (un po’ spoiler), la recensione prosegue dopo la parte in corsivo *
Guidati dalla voce fuori campo di un Saleem ormai anziano, vediamo il nonno di Saleem, il nasuto medico Adaam Aziz, corteggiare e poi sposare ad Agra (1917) la bella Naseem. Quando nel 1944 un noto leader politico liberale viene assassinato, il suo assistente Nadir si rifugia dagli Aziz: qui si innamora della figlia Mumtaz e la sposa. Ma braccato dalla Polizia fugge, lasciando per amore un atto di divorzio alla moglie disperata. Non così disperata, però da trascurare le attenzioni del ricco vedovo Ahmed Sinai, già fidanzato della sorella bruttina Alia: lo sposa e si trasferisce con lui a Bombay.
Finalmente (dopo una buona mezz’ora di film) Momtaz partorisce nella notte dell’agognata indipendenza dagli Inglesi. E qui assistiamo al momento cruciale della storia: Mary, infermiera cattolica dell’ospedale, ispirata dalle parole dei rivoluzionari “Fai che il ricco sia povero e il povero sia ricco”, decide di scambiare il piccolo musulmano Saleem di famiglia benestante con l’indù Shiva, figlio di una mendicante morta di parto e di un suonatore ambulante. Presto si pente del suo atto, e non potendo rimediare si fa assumere come tata, per tenere d’occhio entrambi i bimbi: il mendicante si reca infatti quotidianamente a chiedere l’elemosina in casa Sinai.
Verso i 10 anni il presunto Saleem (di cui nessuno sospetta l’origine estranea perché sfoggia un enorme naso in tutto simile a quello mitico di nonno Adaam) comincia a mostrare strane capacità: entra in contatto telepatico (!) con I Figli della Mezzanotte, i 642 sopravvissuti dei 1.001, tutti dotati di talenti eccezionali. C’è quello che può volare, e un altro che può materializzarsi in altri luoghi usando uno specchio, e Parvati, la strega capace di rendere invisibili cose e persone, e Shiva, il fortissimo: ma Saleem è nato a mezzanotte in punto, ed è il più potente, quello che li tiene tutti uniti e li convoca a suo piacere.
Dopodiché assistiamo nell’ordine a: ritorno di Nadir, che non ha dimenticato l’ex-moglie Momtaz. Esami del sangue che accertano l’illegittimità del bambino, che viene rinnegato dal padre e spedito a Rawalpindi (Pakistan) a casa dell’antipatica zia Emerald, sposata con un generale. Fuga dall’India della famiglia Sinai, a seguito della confisca dei beni in quanto musulmana. Guerra fra India e Pakistan (1965) con bombardamento che stermina tutta la famiglia. Caduta in coma di Saleem, unico superstite, che si risveglia immemore 6 anni dopo, giusto in tempo per partecipare alla guerra civile che vedrà la separazione (1971) fra Pakistan e Bangladesh, con Shiva alto ufficiale dei vincitori e zio generale fucilato. Incontro a Dacca, per la prima volta “dal vivo”, di Saleem e Parvati, fuga nel quartiere dei saltimbanchi di New Delhi, innamoramento, separazione causa arresto durante il periodo delle Leggi speciali (1975), stupro da parte di Shiva, gravidanza, morte di Parvati, ritorno di Saleem dalla prigionia, morte di Shiva, ritrovamento del figlio di Parvati e della vecchia tata Mary e… FINE !!!
Un bel minestrone, o forse un Chutney Verde, quello che viene citato almeno una decina di volte nel corso della storia.
Lo scrittore indiano, da trent’anni esule in Gran Bretagna, Salman Rushdie ha personalmente adattato a sceneggiatura il suo fluviale romanzo del 1981 (quasi 700 pagine), affidando la regia alla connazionale, da decenni in Canada, Deepa Metha riservandosi anche la parte di voce narrante: e questa sua prepotente e ingombrante partecipazione non ha sicuramente giovato all’operazione.
Sul capo di Salman Rushdie pende ancora una fatwa di morte a causa del suo libro I VERSETTI SATANICI, ritenuto blasfemo: perciò il film è stato girato con enormi difficoltà e il massimo segreto possibile in Sri Lanka. E’ stata una produzione enorme, con 65 location, oltre 120 attori parlanti e centinaia di comparse: e anche cobra, scimmie, anatre, elefanti e pitoni. Ma francamente il risultato è meno che modesto, svuotato com’è di ogni forza drammatica: un aggrovigliato, noioso drammone inframmezzato da pezzetti di cinegiornale, storicamente molto poco attendibile poiché contiene ingenuità e semplificazioni (la parte dedicata a Indira Gandhi sfiora il ridicolo) che sarebbero intollerabili anche in una produzione Disney. Nel romanzo, storie personali e nazionali sono indissolubilmente legate; i bambini del titolo, telepaticamente collegati al narratore e simboli di speranza in un futuro migliore, qui hanno doni ridotti a superpoteri di utilità irrilevante. Gli attori si muovono come burattini guidati dall’autore-dio, personaggi privi di vita interiore e impossibilitati a sfuggire a un destino prefissato. Ci sono alcune buone scene, altre ottime, momenti poetici, fotogrammi emozionanti, ma slegati fra loro, galleggianti in un mare di mediocrità: quella che sarebbe stata probabilmente un’ottima miniserie BBC o HBO è diventata un diario di viaggio per turisti col gusto dell’esotico. L’allegoria politica sparisce sotto la farraginosa saga familiare e le lacrime che spuntano negli occhi dello spettatore al momento della riunione finale non sono tanto di commozione quanto di sollievo.
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.