Qualche sera fa, uscita da teatro, ero a pochi metri dalla fermata della metropolitana, ma ho sentito il bisogno di camminare. Dopo aver visto questo spettacolo ho dovuto percorrere almeno un chilometro a piedi, nella fredda notte milanese, prima di superare la ripugnanza verso un qualsiasi, minimo contatto fisico con un altro essere umano.
“Dove fanno il deserto, quello chiamano pace”: la massima di Tacito è il miglior sottotitolo per GUERRA. Non c’è un conflitto in corso, il tempo delle armi è finito, giornalisti e troupe televisive se ne sono andati; ma la gente continua a morire: di fame, di freddo, di violenze, di disumanità. Fra le macerie restano i superstiti, che oltre alle case e agli oggetti hanno perso tutti i valori fondamentali della vita civile, e sogni, e dignità.
Bosnia – una madre e due figlie di 12 e 16 anni, il padre e marito è partito anni prima per la guerra e senza più sue notizie è dato per morto. Vittime di atroci stupri etnici sopravvivono come possono: la madre è aggrappata all’inattesa passione per il cognato imboscato; la figlia maggiore si prostituisce ogni notte sulla statale con le cosiddette Forze di Pace; la piccola nasconde nei giochi infantili l’orrore della violenza subita, trovando conforto nella ripetuta lettura de “Il diario di Anna Frank”, unico libro rimastole.
Un giorno il padre torna, inaspettato, dopo anni di prigionia; ha perso la vista ma non l’arroganza del pater familias; è ormai un estraneo ma egoisticamente pretende che tutto torni come prima. La sua cecità non è solo fisica, si definisce eroe di guerra e si rifiuta di capire appieno quello che moglie e figlie per anni hanno dovuto sopportare: la sua pietà va alla memoria del cane di casa, ucciso e mangiato quando la fame era diventata intollerabile; la sua ira va al vicino e amico che, stuprando le sue donne, lo ha disonorato.
Il suo ritorno spezza il folle, fragilissimo equilibrio che le tre donne avevano faticosamente raggiunto; la sua brutalità, la sua incomprensione prima le costringono a negare, a mentire su tutto, persino sulla presenza in casa dello zio-amante, poi danno loro il coraggio, forse, di andarsene, di provare a ricominciare.
La scrittura dello svedese Lars Norén ha la nitidezza delle grandi tragedie classiche, senza pudori né retorica narra l’inenarrabile. Con gelido realismo colpisce il pubblico con una serie di pugni nello stomaco, attraverso una “piccola” storia ci mette davanti alle nostre responsabilità di grassi membri di quell’Unione Europea che poco o niente ha fatto per fermare il decennale massacro che si svolgeva dietro l’uscio di casa.
Questo dramma scritto nel 2004 sarebbe ancora inedito in Italia senza la coraggiosa collaborazione della piccola Compagnia del Sole di Bari e del Mittelfest, che nel 2011 l’hanno messo in scena con grande successo e che viene riproposto al Teatro dell’Elfo di Milano fino a domenica 27 gennaio nell’ambito della rassegna “Puglia in scena”.
La regia di Mariella Anaclerio rifugge da ogni tentazione naturalistica, asciutta ma emozionante si affida in gran parte alla bravura e sensibilità degli interpreti: Bruno Armando è il padre, Antonella Attili la madre, Silvia D’Amico e Ornella Lorenzano le figlie, Pietro Faiella il cognato, protagonisti di uno spettacolo sconvolgente ma importante e necessario.
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.