Recensione romanzo L’isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson

Cosa si può dire di un romanzo che ha dato il titolo a mezza migliaia di ristoranti, qualche centinaia di alberghi e centri turistici e che ha scatenato – anche in tempi recenti! – la fantasia di chi non la considerava luogo nato da una splendida fantasia ma vera e propria identità geografica, spesso identificata con le Isole Vergini Britanniche?

Cosa aggiungere di una storia che ha dato il via a più di cinquanta (50!) proposizioni cinematografiche dal 1920 ai giorni nostri, che ha visto la sua trama riproposta sulle assi dei palcoscenici teatrali di mezzo mondo e che vanta persino una serie di riduzioni a fumetti fra cui una storica a cura niente-popo-di-meno che di Hugo Pratt?

Beh, si può iniziare con il dire che sarebbe riduttivo considerare il romanzo più noto di Robert Luis Stevenson come un “libro per ragazzi”, e ancora più riduttivo sarebbe interpretarlo come una semplice storia di avventura. Vero è che “L’isola del tesoro” ha segnato l’immaginario collettivo sulla figura del pirata fino ai giorni nostri e probabilmente anche per il futuro (in attesa della nascita dei pirati spaziali…) ma è altrettanto vero che la giovane età e, soprattutto, il percorso del protagonista che fanno un esempio perfetto di “romanzo di formazione”. Ed il lettore cresce con Jim Hawkins, voce narrante e principale interprete, seguendo il ritrovamento della mitica mappa e le peripezie di un ragazzo che ama certamente il viaggio ed il mare, ma che appare – anche al lettore più adulto – come personaggio tutt’altro che semplice da interpretare.

Altra figura che emerge con assoluta chiarezza e ottimo disegno nel romanzo di Stevenson è quella di Long John Silver, cuoco e pirata con una gamba sola, un pappagallo sulla spalla e una credibilissima doppiezza d’animo (ci riconoscete nulla del vostro archetipo di pirata?). Long John Silver è il personaggio che finisce per regalare il suo vero spessore al libro: la partecipazione del lettore nei suoi confronti è massima, sia nei momenti in cui appare quasi come un padre putativo per il piccolo Jim, che nelle vicende successive, certamente più drammatiche e psicologicamente più complesse, capaci di ribaltare del tutto il nostro punto di vista fra sorpresa e un pizzico di delusione.

La sintesi finale? Se fra un volume e l’altro della saga di Hunger Games riuscite a infilare questo romanzo senza tempo fra le letture dei vostri ragazzi, beh, non sorprendeti se lo divoreranno come credevate fosse possibile solo con i fumetti. Ci sono pagine che faranno sognare sempre, e Stevenson ce ne ha regalate alcune indimenticabili.

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