On the Road è il manifesto (non) programmatico di una generazione che ha reso la sua epoca leggendaria. Carica di energia (auto) distruttiva e speranza, la beat generation ha fatto sognare almeno una volta nella vita ognuno di noi iniettando nelle nostre vene letterarie voglia di pensiero libero, di una vita al massimo oltre i convenzionali limiti e ruoli assegnatici dalla società e dai nostri benintenzionati educatori. On the Road è un romanzo che trae la sua linfa vitale  dal vissuto ricco di eccessi, di alti e bassi, di riconoscimenti e non, di quel Jack Kerouac pilastro della letteratura d’oltre oceano e vero proprio antesignano di quella che più avanti diverrà la cultura dei figli dei fiori, materia di studio tra i banchi di scuola. On the Road, da oggi, è anche un film che Walter Salles ha portato nelle nostre sale.

Quelle pagine lette voracemente durante le nostre notti di adolescenti, ringraziando il cielo che i compiti per le vacanze non prevedessero solo noiosissimi tomi fatti di vite strazianti e straziate, ci han fatto conoscere l’America prima di averla vista davvero, ci han fatto provare l’ebbrezza del viaggio all’avventura prima di poter mettere lo zaino in spalla ed iniziare il classico vagabondare con gli amici che ha segnato il nostro passaggio all’età adulta, ci hanno fatto contare i giorni alla maggiore età con sogni di libertà e libertinaggio mai provati.

Siamo alla fine della seconda guerra mondiale, in una America che risorge dopo il proibizionismo ed altre forme di mortificazione dell’animo, atomiche e bombardamenti alle spalle i giovani guardano avanti e soprattutto sono famelici di vedere il mondo, di vivere appieno la giornata e di scoprire costantemente qualcosa di nuovo, senza freni, senza regole, senza morale (spesso) senza soldi (quasi sempre). Un gruppo di giovani, aspiranti scrittori, poeti, artisti, tutte menti illuminate, spavaldamente, a spese delle famiglie e del contribuente, vivranno un lustro fatto di sperimentazione, eccessi, molto sesso e troppa droga. Sal Paradise, Dean Moriarty e Carlo Marx sono gli alter ego sullo schermo di quei Kerouac, Cassady e Ginsberg che tutti conosciamo.

Il compito non facile di entrare nella loro pelle è stato affidato a giovani promesse del cinema affiancate da attori strutturati ed apprezzati, ma l’ingranaggio si inceppa comunque. Non è la narrazione che scorre seguendo le pagine (anche se nella prima mezz’ora rischiamo di assopirci inesorabilmente); non è la fotografia sgranata, calda, sudata, vintage, in grado di trasportarci in un passato che ogni giorno diviene sempre più remoto; e non sono i dialoghi, che tanto narrano, bensì è la componente più acerba del cast a non convincere. Molteplici sono le situazioni dall’alto tasso alcolemico ed erotico, ma la tensione non buca mai lo schermo. In sala in molti si perdono (nei propri pensieri?), non riusciamo a sentirci in quelle stanze, nè a lasciarci travolgere dal torpore dei fiumi di alcol, delle badilate di droga e del molto sesso che scorrono davanti ai nostri occhi.

L’ambizione e lo sforzo di regista ed attori sono percepibili, tutto è davvero confezionato con cura, fotografia e colonna sonora sono deliziosi, ma l’espressione sofferente della Stewart senza veli è la medesima della Biancaneve in armatura vista la scorsa estate (in pratica quella della povera adolescente innamorata del vampiro dal cuore tenero), così come il giovane Sal (alter ego dello scrittore), che pare tanto (troppo!) un bravo ragazzo, poco si addice alla versione giovanile di una persona che è perita per cirrosi epatica. Così non va… ad un testo potente (e io non l’ho amato!) avrei preferito un film che trasudasse erotismo, sregolatezza e scorrettezze.

Voto 5. Seguendo le orme di Kerouac, forse Salles avrebbe dovuto osare, sperimentare e senza paura dare vita ad una pellicola… eclettica. Peccato!