“Holy Motors” è il titolo del film che ha fatto discutere e che è approdato sul Lago Maggiore direttamente dalla selezione ufficiale dell’ultimo festival di Cannes. Coloro che hanno familiarità con l’arte l’hanno trovato pura poesia per immagini, taluni l’hanno apprezzato per il suo modo di rompere gli schemi del classico cinema d’autore, altri l’hanno subìto, hanno sofferto per tutta la seconda ora del film e sono usciti dalla sala di sicuro perplessi (i più estremi addirittura stizziti).
Una limousine, un trasformista (quel Denis Lavant da cui Carax non riesce a separarsi), la sua autista e assistente personale (la bellissima Edith Scob) ed una serie di situazioni surreali che si susseguono nell’arco di una giornata di lavoro qualunque del nostro protagonista impersonato da un attore talmente abituato a collaborare col regista da riuscire a rendere i suoi personaggi credibili anche ai nostri inesperti e un po’ sbigottiti occhi.
Incorniciato da una fotografia che non lascia nulla al caso, trasudando decadenza, solitudine e follia da nuovo millennio, il film si snoda tra le vie di Parigi a bordo di una lunga limo all’interno della quale vi è un vero e proprio camerino ambulante, un ufficio su gomma in cui Monsieur Oscar si prepara ai suoi quotidiani appuntamenti.
Dobbiamo ammettere che qualunque fosse l’opinione che stava prendendo forma nella mente dello spettatore, la maggioranza è rimasta sino all’ultimo fotogramma per curiosità, per speranza che vi fosse una spiegazione plausibile alle seppur belle, ma spesso enigmatiche e slegate immagini, oppure per una inspiegabile sintonia che l’autore riesce spesso a creare con il suo pubblico.
Carax ci mostra le molteplici sfaccettature della solitudine in un’era divenuta frenetica a discapito della dimensione umana? Oggi vi è davvero la necessità di mentire a sé stessi e vivere una vita fittizia, oppure sono le debolezze dell’uomo comune quelle che Oscar impersona su commissione? Talvolta mendicante, spesso killer e padre di famiglia più volte al giorno, perché? Ma soprattutto, quale riflessione vorrebbe suggerirci? Una visione della vita o del fare cinema?
Perso a Cannes, recuperato nel contesto più casalingo di Locarno, questo film non mi ha lasciata indifferente anche se lo trovo troppo al di là della comune comprensione, sganciato dalla realtà e volutamente “visionario”. Una di quelle opere perfette per i festival, ma che difficilmente potrebbe raccogliere il consenso delle masse, quelle che non vengono calcolate nonostante abbiano importanza: danno un notevole contributo a coprire le spese, decretano il successo di un regista e permettono la produzione di sempre nuove opere.
Contraria per principio a tutto e tutti coloro che si trincerano dietro l’arte per snobbare le persone comuni (che però sono la maggioranza!), mi allontano da questo medievale concetto ed esprimo il mio dissenso con un voto che a mala pena raggiunge la sufficienza: dal 5 al 6, grazie al cast che ha saputo assecondare uno script insolito e dare vita a performance impeccabili.
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”
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