Recensione romanzo La legge dell’odio di Alberto Garlini

Non e’ consigliabile aprire un post o una recensione con una “frase fatta”, una di quelle espressioni che sono state tritate come una tartarre e assomigliano sempre di più a una sorta di indistinguibile rumore di fondo. Ma non posso fare a meno di scrivere che “bisognerebbe fa leggere a scuola” –  e vai, la frase fatta e’ andata –  il  romanzo di cui vi racconto oggi. Magari indirizzandola agli studenti dell’ultimo anno delle superiori, che in un programma sempre troppo sincopato faticano ad arrivare alla seconda guerra mondiale e rischiano di ignorare cinquanta densissimi anni di storia patria.

“La legge dell’odio” e’ un romanzo coraggioso, che affronta gli anni bui del terrorismo da un punto di vista nuovo e certamente originale: il protagonista Stefano Guerra e’ infatti un “nero” ed è chiara la preparazione dell’autore nell’addentrarsi in un percorso decisamente poco battuto. Se si escludono il “Nero” (appunto) di “Romanzo Criminale” – personaggio a cui corre necessariamente il pensiero – ed alcune rare pubblicazioni di nicchia, gli ideali, le esaltazioni e persino i simbolismi di una parte di quella generazione sono state certamente poco esplorate sul piano puramente narrativo.

L’artificio del doppio piano temporale rende giustizia ad una trama che si fa tragicamente avvincente pagina dopo pagina: il romanzo si sviluppa infatti fra il 1985, anno in cui compare davanti ai magistrati il neofascista Franco Revel, ed i precedenti e tumultuosi anni di piombo, a partire dagli eventi di Valle Giulia e in un crescendo di azioni contaminate da rapporti coperti con settori dei servizi segreti. Lo sfondo storico e politico si confonde e si interseca con le vicende anche sentimentali di Stefano Guerra: l’effetto è particolarmente intrigante, e consente da una parte il momentaneo allontanamento dalle azioni più crude di cui si macchierà il protagonista, e dall’altra una definizione del personaggio che assume tutti i toni dell’umano destino evitandone efficacemente la banalizzazione. E chiaro, l’effetto finale può essere disturbante, perché non riesci a definire bene quali sensazioni stimoli un protagonista che sfugge alle tradizionali suddivisioni fra bene e male, e che vedi scivolare verso un abisso fatto di un senso dell’onore difficile da comprendere e ansie distruttive alla ricerca della “bella morte”. Ci si finisce per interrogare, e a lungo, sulla degenerazione di una lotta alle ingiustizie che non puoi non comprendere e sulla rabbia di una intera generazione, espressa su fronti opposti eppure non troppo dissimili.

Ho da sempre una fascinazione per romanzi che intreccino finzione e realtà storica, in particolare del dopoguerra: una passione coltivata con alcune belle prove narrative del collettivo Wu Ming e proseguite con i due (e aspettiamo il terzo!) tomi di Simone Sarasso. Garlini sceglie di intrecciare realtà e finzione, con riferimenti puntuali e facilmente interpretabili in cui nomi reali e fittizi sembrano giocare a rimpiattino. Certamente riconoscibile in particolare la strage di Piazza Fontana (nel romanzo Piazza del Monumento) in cui, curiosamente, si sposa la tesi del “doppio ordigno”, portata tra l’altro sul grande schermo in questi giorni da Marco Tullio Giordana. Ulteriore elemento per cui – me ne rendo conto – la polemica potrebbe essere dietro l’angolo. Se è il prezzo da pagare per un romanzo che faccia pensare, beh, io sono assolutamente disponibile a pagarlo.

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