Ha proprio ragione, presidente. Il posto fisso annoia.
Poi tornava, e l’estate trascorreva un po’ più allegra perché almeno faceva caldo, e non toccava mettersi gli stivali di gomma della cugina di due numeri in meno, o i gurlòn, zoccolacci di legno inchiodati con cuoio e gomma, che spaccavano i piedi provati dai geloni, e lei poteva stare con le sue figlie, che d’inverno vedeva meno, chiuse in casa a fare le finiture che portavano loro le magliaie di professione, finiture troppo noiose e per cui ci volevano la vista buona e le manine fine della gioventù.
Così poteva stare anche un po’ col figlio minore, epilettico, per il quale la mutua non passava alcunché, anche perché lei era vedova di un simpatizzante socialista, portato via dalla miseria a trent’anni.
Anche le sue figlie, mia nonna e mia zia, erano più contente d’estate: lavare al fosso non era agghiacciante, e si poteva andare in giro per i campi a rubare qualcosa, e al limite mangiare i spusétt, le libellule, che forse lei non lo sa, ma per qualcuno nella Bassa dei tempi andati sono state fonti di proteine non trascurabili.
Ha ragione, la mia bisnonna il posto fisso dai signori non lo voleva proprio: pensava che le rubasse quel poco di fierezza e dignità che le era rimasto. Preferiva farsi divorare, rispettata, le gambe da zanzare e bisce d’acqua, e caricare le sue quattro miserie sul carro l’11 novembre, se necessario.
Un bel giorno essi hanno chiesto, dietro offerta di denaro, di cedere definitivamente la bambina: aveva già detto di sì, perché era inverno e stavano per morirsi di fame, quando, in bici attraverso le campagne, è arrivata sua sorella, vedova con figli, che per campare affittava le stanze del suo povero cascinale alle signorine che si intrattenevano coi Tedeschi.
Allora dopo averle parlato e avere pianto molto, quando i sinti tornarono la mia bisnonna disse una sola frase “Scultì, sciuri:’n due se mangia in quater, se mangia anca in cinc”*** e in questo modo ha probabilmente contribuito a salvare la minore, mia nonna, perché dopo poco sono iniziate anche le persecuzioni degli zingari, e tutti sappiamo com’è andata la storia.
Vede, presidente, tutto questo mi è venuto in mente in questi giorni, a sentirvi dire le stronzate che dite. Se la precarietà è un valore aggiunto, perché il culo da quel cadreghino voi non lo staccate mai?
Il problema, vede, è che io so come è finita.
E’ finita che mia nonna a 19 anni, stufa di sbattersi di qua e di là, fra borsa nera, lavori stagionali, filanda e sigarette, si è sposata, convinta della cosa fino ad un certo punto, con un ricco intendente che aveva oltre il doppio dei suoi anni, cioè il nonno di cui parlo in Pusè i studien pusè i diventen scemi, e nella fattoria in cui è entrata come signora ha potuto accogliere la madre, che di lì a poco sarebbe morta per un brutto male, e il fratello minore, che è vissuto fino a pochi anni fa.
La figlia maggiore, mia zia, si era sposata invece completamente convinta e per puro amore, ma è andata male anche a lei: dopo un’infanzia così accidentata, ha passato anni in sanatorio, e infine è morta, prestissimo e molto rimpianta.
Sapendo come è finita, le dicevo, presidente, io appena ho potuto ho fatto un concorso, preparandolo di notte e lavorando di giorno, l’ho vinto e preso un discreto posto fisso sotto lo Stato, con malattia e ferie pagate.
Soprattutto malattia: perché mi creda, i danni che si fanno minando il fisico di una generazione si riverberano per le successive due o tre, ma questo voi non lo saprete mai.
In fede, M.H.
* raccattava su i suoi quattro stracci
** il limite minimo era 14, ma …
*** statemi a sentire: dove si mangia in quattro, si mangia anche in cinque
Mata Hari danza in cucina, piroetta con maestria fra ingredienti esotici o contadini, si produce in un doppio avvitamento verso la cantina, per scegliere la bottiglia più adatta alla pietanza consigliata. Scordatevi i virtuosismi alla Carla Fracci e concentratevi sui sapori: tra un pizzico di sale ed uno di ilarità, ne resterete sedotti ed ammaliati.
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