Berlinale 2012 – (Out of) Competition: Shadow Dancer

Clive Owen è Mac, il protagonista indiscusso di una pellicola che vorrebbe essere l‘elettrizzante trasposizione su grande schermo dell’ennesimo libro, questa volta nato dalla penna di Tom Bradby, ma che a tratti è di una lentezza conciliante un insperato (e gradito) riposino tra una proiezione e l’altra.

Film dal cast altisonante, preso in prestito dai più famosi palchi d’Inghilterra, e con regia insignita dei più importanti riconoscimenti, per raccontare il dramma di Collette, apparentemente una donna contro la quale la sfortuna parrebbe essersi accanita: nata in Irlanda del Nord, cresciuta a braccetto con l’IRA, ragazza madre, appartenente ad una famiglia di “lottatori”. La sua rovina sarà proprio l’ira, la sua forza la famiglia e nel mezzo vi sarà Mac con i suoi problemi la cui vita vacillerà ancor di più difronte al di lei bel visino. Egli permetterà alla propria coscienza di interferire con il lavoro e ciò comprometterà molti equilibri precari.

Il panorama che si presenta all’agente dell’MI5 è, infatti, desolante, talvolta disperato e di paura. È il dramma di una famiglia che pare votata al(l’auto)distruzione, al potenziale tradimento dei propri affetti e dei propri ideali e che vorrebbe (o per lo meno è quello che percepiamo) essere una più ampia parabola. L’opera infatti, prescinde dalla politica, è un romanzo per immagini e vuole rimanere tale quindi prova, e a tratti riesce, a creare suspense, a intrigare lo spettatore, a farlo sperare in un lieto fine man mano che tutto assume una piega più intima e lontana dall’azione.

Ma il dramma è sempre lì, difronte a noi, nonostante il matriarcato e, in generale, la forza ed il gioco di squadra di tutti i sopravvissuti. Persone che si trovano spesso intrappolate tra due terribili fuochi che da un lato devono convivere con un conflitto che non rimane fuori dall’uscio di casa, dall’altro che dentro le mura domestiche debbono mantenere viva la memoria di coloro che non ci sono più. Efficace è il messaggio di paura, paranoia, quotidiana difficoltà che portava spesso alla inconsapevole convivenza di attivisti con informatori.

Storia quindi di una famiglia come emblema di un vissuto condiviso da molti, pochi i moralismi molto il coinvolgimento emotivo, forse altrettanto forte è il distacco da parte di coloro che non sentono come propria la battaglia. Perché siamo onesti, tutti conosciamo il problema, ma esso è tutto made in UK. Pochi quindi sanno veramente cosa possano aver provato delle persone nate e cresciute a Belfast o anche solo a Londra sino a vent’anni fa.

Un’ultima nota: comprendiamo che Clive Owen si senta a suo agio ad interpretare un uomo con un conflitto interiore, sofferente e che abbia un dilemma da risolvere, posta la carrellata a cui ci ha sottoposti, ma ci piacerebbe si fidasse un po’ più del giudizio del suo pubblico e sfidasse un pochino sé stesso accettando ruoli con minor struggimento e maggiore azzardo!

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