Lo sappiamo tutti, ma in tempi di crisi è più evidente: la patina buona del consumismo è più sottile, e il luccichio dell’oro più finto, e pieno di crepe.

Abbiamo affrontato queste feste con le tasche alleggerite e prospettive incerte, con più conti da fare per garantire i regali almeno ai bambini, con un cappotto tenuto d’occhio fino all’ultimo per regalarselo proprio a Natale, nella speranza che qualcuno lo compri e noi si possa dire “eh, mancava la taglia…”, con tavole meno imbandite, forse con meno sprechi.

Ma non è della crisi economica che mi è venuto da riflettere in queste feste, bensì delle crisi personali.

Le feste sono un redde rationem spietato, intorno al tavolo è impossibile non rendersi conto di chi c’è, chi non c’è più, chi c’è ancora, ma con salute più malferma dell’anno precedente…

Il giorno della vigilia sono tornata dai miei, nel pomeriggio ho portato a spasso il cane con mia madre e nel passare davanti al cimitero mi si è stretto lo stomaco: avrei fatto volentieri un giro fra le tombe a lasciare qualche fiore, ma il pensiero di rivedere fra quelle lapidi, oltre il mio amato zio, troppe facce della mia adolescenza di periferia, mi ha fatto desistere: preferisco tornare a primavera, quando anche l’erba accarezzerà le loro ossa, e io mi sentirò meno strana per essere quella che a un certo punto ha studiato ed è andata via.

La sera di Natale ho fatto una volata a Messa e, con la mia incredibile capacità di sentirmi fuori posto in ogni luogo, ho visto un’amica di scuola, con tre figli, e il marito, e capelli da vecchia, e mi son detta “bah…”

Mi son chiesta come avrei fatto a star dietro alla moda se avessi avuto da destreggiarmi con una famiglia numerosa, e anche lì ti fai domande che ti fanno male al cuore.

Perché ad un certo punto hai detto basta, perché hai deciso che non era il caso di andare avanti a sposarsi né convivere, perché hai scelto di piantare baracca e burattini e stare al mondo in questo modo libero ed autentico, ma certamente difficoltoso, e ti rendi conto che non c’è solo il merito dell’autonomia in tutto ciò, ma anche il rifiuto del legame, un’ambiguità fra desiderio e bisogno, fra vento e focolare che ti distrugge.

E la sera ritornare a casa, vedere i tuoi genitori più anziani, tua madre che cucina, tuo padre che fatica a parlare e ricordare… e ti rammenti di quello spauracchio più e più volte rimosso nel corso della giornata, quell’ombra nera che sai attende chiunque, e che racchiude il nostro umano orizzonte, dandogli in un certo senso anche significato… e allora ti fai forza, vai a citofonare a quella zia che ha perso una figlia proprio il Natale scorso, e le regali una parte del tuo tempo, sapendo che se nulla potrà darle conforto, almeno saprà che non la si dimentica.

E prima di tornare nella metropoli, vai a trovare anche altri parenti, ascolti con pazienza quella che ha l’Alzheimer e i suoi figli che non ce la fanno più ma non lo vogliono ammettere, quella di 80 anni che invece bada ancora ai nipotini e cucina per tutti, e la cuginetta quindicenne che si veste emo e ti ricorda un po’ quello che sei stata tu, oltre vent’anni prima.

Ecco,  a volerlo caratterizzare, un Natale con la coscienza della fine, è stato per me questo scorcio di 2011.

Un Natale in cui ci si chiede davvero dove si sta andando, quali sono le cose che ancora non hai affrontato né risolto, e un sentirsi eremiti nel deserto di un’incapacità di “andare verso l’altro” che affonda le radici nella propria vita da sempre.

Mi spiace, avrei voluto fare un articolo natalizio scoppiettante come i soliti, ma la tastiera ha scelto di esprimersi sotto tono, questa volta, e toccare corde del cuore che non lascio risuonare tanto spesso.

In ogni caso, cari lettori di MSD, l’augurio è sincero e il bicchiere risuona, in questo mio saluto di fine anno a voi e i vostri cari.

A presto, M.H.