Si sa, i luoghi più difficoltosi da rendere sul palco sono l’osteria, il bordello, l’alcova e la galera.
Forse perché stanno tutti sotto l’egida di Dioniso, forse perché sono quei posti dove l’essere umano non mente più, perché non ha più nulla da perdere, ed è nudo e crudo, come il suo bisogno.
Allora ci si chiede perché la regia abbia scelto di utilizzare ben tre di questi topoi impossibili per uno spettacolo, impantanando sé stessa e gli attori in una resa interpretativa davvero difficile.
De André, si sa, cantava il sottobosco dei carrugi, leggeva il culo al potere, alle miserie dell’uomo, ed era capace di poesia ineffabile, filtrando la sua opera alla luce crepuscolare di Brassens e della poetica d’oltralpe.
Quasi nulla di tutto ciò passa in questo show, che si difende benino nel primo tempo, ma precipita in cliché da filodrammatica da oratorio nel secondo, rivelando la trama grossolana di un tessuto narrativo inesistente, sostenuto da ideologie vacue e voci altrettanto vacue.
Ci sono le puttane, i mariuoli, gli anarchici, i poliziotti e il giudice, tutti graniticamente buoni o cattivi, senza mezzitoni e sfumature: il potere è malvagio, odia la libertà e i poveretti, che, si sa, ci smenano sempre ma hanno l’anima leggera e la ragione dalla propria parte.
Un vittimismo quasi cristiano e un manicheismo di fondo che qualunque fan del compianto cantautore genovese sa non appartenergli affatto.
Il primo personaggio che incontriamo è Paoluzzo, l’arrabbiato, il quale non si schioda da questo registro emotivo, senza peraltro mai riuscire a renderlo in maniera davvero convincente: sembra uno stereotipato autonomo da centro sociale che più fa la voce grossa, più nemmeno lui ci crede.
E il Sirena? Gran bel ragazzo, ma quando inizia a cantare vien da chiedersi perché Dio abbia tolto la vista a Ray Charles e abbia dato la voce a lui…
Da questo pantano si stacca in modo del tutto inatteso la brava Silvia Giulia Mendola, credibile quando recita e trascinante quando canta, segnalandosi per una “Ballata dell’amore cieco” assolutamente passionale, sentita, perfetta.
Anche Francesco Visconti mi è piaciuto: interpreta bene “Don Raffaé” risultando convincente, e i personaggi di Gesù e dell’Indiano, con qualche attenzione in più, avrebbero la possibilità di venire fuori per i meriti che hanno.
Tornando alla messa in scena, l’espediente del lenzuolo e la rievocazione di Nancy morta-pipistrello, con susseguente apparizione di Nancy medesima in veste nera svolazzante, sono fra le più brutte e zoppicanti che abbia visto da anni, un massacro tout court del simbolico e della distanza che deve sempre sussistere, in teatro, fra il fatto e l’evocazione del medesimo.
Altra cosa che non ho capito, poi, è stata la proditoria scelta del reparto costumi: un bordello genovese non è un accampamento di rom dei Balcani, la canzone Khorakané e l’amore di Fabrizio per il popolo tzigano sono una eventuale scusa troppo esile per avallare questa scelta estetica infelice, del tutto fuori-tono.
Parimenti frammentario e sconclusionato risulta lo stile dei protagonisti uomini, con incongruenze temporali nel taglio di canotte-jeans-maglie-acconciature etc.etc.
Ok, adesso basta, prendo fiato e mi fermo qui.
Come fan del defunto De André e come spettatrice pagante mi aspettavo qualcosa di più.
Ma forse, sotto Natale va bene così … anche se spero che, interpretato in questo modo, questo sole sia proprio ultimo.
Mata Hari danza in cucina, piroetta con maestria fra ingredienti esotici o contadini, si produce in un doppio avvitamento verso la cantina, per scegliere la bottiglia più adatta alla pietanza consigliata. Scordatevi i virtuosismi alla Carla Fracci e concentratevi sui sapori: tra un pizzico di sale ed uno di ilarità, ne resterete sedotti ed ammaliati.
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