Uhm… Categoria “Libri di viaggio”. Un settore verso il quale – pur essendo tendenzialmente stanziale e dunque target perfetto, come tutti coloro che possono permettersi di viaggiare solo con la fantasia – non ho mai provato una profonda passione. Con la sola e importantissima eccezione delle meraviglie di Bill Bryson, un concentrato di umorismo, stupore e purissima emozione che non ha mancato di divertirmi infinitamente e che rileggo di tanto in tanto nei frangenti bui.

In questo caso, però, sulla copertina campeggiava il nome di Will Ferguson, autore di un romanzo che ho trovato memorabile (“Felicità”) e che troneggia nella mia personalissima classifica di libri più regalati. Anch’esso, naturalmente, segnato dalle tante riletture che hanno messo a rischio la rilegatura della prima edizione che mi ero accaparrato.

Alla fine la curiosità ha avuto la meglio, anche grazie ad una rapida sfogliata in libreria ed al fatto di essermi accorto dei risolini tipo bimbo-nella-carrozzina-con-un-ninnolo-davanti che mi stavano sfuggendo. L’ho comprato, e ne è valsa la pena.

Will Ferguson racconta, con sguardo candido e arguzia irresistibile, la cronaca del suo viaggio tra Capo Sata e Capo Soya, rispettivamente la punta sud e il territorio più a nord del Giappone. Un’avventura vissuta – come anticipa il titolo del volume – approfittando dei passaggi automobilistici degli abitanti delle regioni attraversate, in un riuscito tentativo di esplorare il paese del Sol Levante con la popolazione locale, e non semplicemente attraverso campi e città.

Si susseguono così incontri irresistibili, tra dialoghi in cui le profonde differenze culturali mostrano anche quel po’ di sospetto verso gli stranieri, tipico dei giapponesi, e momenti toccanti, come la rievocazione di un anziano dei giorni trascorsi in un campo di prigionia americano. Un viaggio narrato con toni diversi ma con due costanti che Ferguson è abile a miscelare: l’ironia continua e la capacità di avvicinare con rispetto un popolo e una nazione lontana dalla realtà occidentale.

Ci si diverte un sacco, si imparano cose nuove, ci si appassiona a tradizioni millenarie e ad aspetti di sorprendente modernità. Si superano in un lampo stereotipi annidati da anni dentro di noi, ci si affatica lungo cammini di pellegrinaggi circolari (!), si sospira per una cultura dell’accoglienza radicata profondamente e ci si riconosce nelle mille trappole di qualche hotel:

“Quando chiesi il servizio di sveglia, l’uomo mi consegnò una di quelle enormi sveglie a molla che sono scomparse all’incirca negli anni quaranta. Quando gli chiesi un asciugamano, lui mi chiese dei soldi extra. Gli avrei voluto chiedere l’ora, ma non ero sicuro di potermelo permettere”.

Consigliato a tutti, davvero a tutti. Viaggiatori e non.

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