Recensione Dannazione di Chuck Palahniuk

A volte si intrecciano in una spirale senza fine, ricordando i bei tempi andati e campando di sole royalties. A volte, invece, ritornano.

Oggi salutiamo il ritorno di Chuck Palahniuk, un autore che ci aveva esaltato con romanzi come Diary, Rabbia, Survivor – per non citare l’immortale Fight Club – e che ci aveva un po’ depresso e un po’ fatto arrabbiare con le sue ultime uscite, ed in particolare Pigmeo e Senza veli. L’approdo in libreria di “Dannazione” interrompe l’inquietante involuzione dell’autore statunitense e regala ai suoi innumerevoli lettori una ulteriore prova della sua genialità.

Perchè, dannazione, “Dannazione” è un gran bel romanzo. Sto scrivendo subito dopo averlo terminato – cosa che i recensori seri sconsigliano ampiamente, peraltro – e vivo la curiosa dicotomia tra il non-rivelare-troppo, correndo il rischio di rovinarvi almeno un paio di sorprese, e l’urgenza-di-comunicare, perchè il testo è veramente disseminato di piccoli e grandi colpi di teatro.

Madison, protagonista della vicenda, è una ragazza tredicenne all’inferno. Lo è nel vero senso della parola: figlia di una coppia protagonista del jet-set, dopo una infanzia inevitabilmente segnata dagli agi è morta in albergo durante la cerimonia della notte degli Oscar e si è ritrovata tra le fiamme dell’Ade. Dopo un iniziale e comprensibile spaesamento, Madison intreccia improbabili amicizie che la accompagneranno in un viaggio che ha poco da invidiare a quello dantesco. Certo, nella commedia divina i dannati non erano costretti in un call center dedicato alle ricerche di mercato, ma d’altra parte… non vi era mai sorto il dubbio che le telefonate in perfetto ora di cena provenissero direttamente da laggiù?

“E invece con il mio auricolare-telefono, chiedo ad una stupida persona viva di che colore dovrebbero essere dei cotton fioc per intonarsi al meglio con l’arredamento del suo bagno principale. Su una scala da uno a dieci, le chiedo che voto darebbe alle seguenti profumazioni di lucidalabbra: calore di miele… brezza di zafferano… menta oceanica… raggio di limone… rosa di panna… brace fragante… e bacche di minchia.”

Una curiosa trama epistolare in cui la ragazza si rivolge direttamente a Satana si incrocia con una sorta di romanzo di formazione post mortem. Si ride moltissimo e si riflette altrettanto, perchè Palahniuk non rinuncia a sferzare la nostra società con lo sguardo lucido e ricco di caustico umorismo dell’attento osservatore di cose umane. Soprattutto, ci si scopre a ricercare costantemente il tempo e la possibilità di rimettere gli occhi su questo romanzo dalla copertina azzeccatissima, ed è tutto quello che potevamo augurarci.

Non tradirci più, Chuck.

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