Melancholia e la sua straziante danza

“Cos’è Melancholia?” è la domanda che mi sono sentita porre più spesso negli ultimi giorni. Melancholia è un pianeta che fa una “danza di morte” con la Terra sulle note di Wagner, dopo aver accarezzato gli altri astri che popolano il nostro sistema solare. Melancholia simboleggia la malinconia e alla fine siamo noi i prescelti a soccombere, perché la attiriamo con forza nella nostra atmosfera con tutta le nostre insicurezze, i  timori e le paure che non ci fanno godere la vita appieno. Ma Melancholia prima di tutto è la storia di due sorelle e del loro modo antitetico di affrontare la vita.

 

Justine si sposa in un castello da favola, con un uomo dolcissimo, in mezzo ad adoranti invitati e ad un boss che la promuove come regalo di nozze, ma lei quel magnifico giorno decide di distruggerlo, perché le sta stretto come la joie de vivre, che ha perso da tempo. E così la favola si spegne a notte fonda, mentre ancora fluttuano le lanterne cinesi nel cielo in compagnia delle lune che lo costellano. E poi c’è Claire, perfetta, con un marito presente e un figlio arguto, colei che di fatto fa da madre a Justine, è forte, è pragmatica e tremendamente attaccata alla vita e questo sarà il suo più grande ostacolo. Quando non vi sarà più scampo, infatti, gli equilibri s’invertiranno: la sorella ammalata di depressione prenderà le redini della situazione mentre Claire rimarrà intrappolata in un interminabile susseguirsi di stati ansiogeni.

Un inno alla vita o alla morte? Un nobilitare una malattia tanto sottovalutata quanto la depressione o un evidenziare la fragilità di chi non ha mai sofferto nella vita? Il dubbio è più che mai lecito soprattutto se si sbircia tra le pagine della biografia del controverso regista danese. Lars Von Trier per molti un genio, per altrettanti un matto, di certo un uomo dalle mille fobie, con un passato non semplice e che conosce molto bene gli stati depressivi al punto di poter loro dedicare un intero capitolo di un film.

 

Opera non divertente, lunga, i cui silenzi vengono elogiati solo perché la pellicola porta una firma importante (ho sentito e visto massacrare film ben più intriganti per molto meno), che si apre con la fine ed ha il merito di chiudere, dopo averci però fatto patire un bel po’, il cerchio. Una fotografia stranamente caldissima, avvolgente quanto un protettivo abbraccio, corona la fase depressa, mentre l’avvicinarsi della tragedia è presa per mano da nebbia, piogge intermittenti e grandine su uno sfondo così azzurro da tendere al verde. Ma d’altro canto il secondo capitolo è spesso in esterni in parallelo con quell’isteria che ci porta a coinvolgere coloro che ci circondano, al contrario di quella depressione che ci induce a chiuderci nel nostro bozzolo e ad allontanarci dagli altri.

 

Non c’è che dire l’attenzione maniacale al particolare è evidente, gli effetti della sua incredibile lentezza pure: metà dei presenti hanno abbandonato la sala celandosi nell’oscurità, l’altra metà sognava rumorosamente. D’altro canto è stato premiato dalla medesima giuria che ha coronato come capolavoro The Tree of Life!

Il mio consiglio è di valutare con attenzione l’ingresso in sala, soprattutto coloro che hanno un sistema nervoso compromesso o che vogliono mantenere il proprio precario equilibrio.

 

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