Recensione film In The Cut

Jane Campion è una regista e sceneggiatrice che ha il potere di irritarmi irrimediabilmente: è fastidiosamente pretenziosa, con la sua fotografia sempre uguale dalle sfumature voyeuristiche e le inquadrature troppo spesso storte, umide e furbescamente artistiche. Ostenta poesia che poi sembra dimenticare fuori dal set e si ha il costante dubbio che voglia dare una venatura drammatica a ogni genere di pellicola – prima a complicate e passionali storie d’amore e dopo una decade a thriller dai risvolti torbidi e pseudo erotici, dove la cosa più osé sono immagini di sesso retrò (non c’è che dire: gli anni ‘80 hanno lasciato il segno!) che fanno solo sorridere e non solleticherebbero neppure un adolescente in crisi ormonale.

Staticamente tutto ruota per l’ennesima volta intorno alla sopravvivenza ed emancipazione di una donna da non si sa bene cosa (o forse dovremmo dire sempre da se stessa): la regista femminista fuori tempo massimo qui fa indossare ad una improbabile Meg Ryan panni drammatici e in tutti i sensi problematici. La povera fidanzatina d’America, con una recitazione sprovvista pure del supporto dei soliti sorrisini, ne subisce di tutti i colori e si salva con una naturalezza ben poco probabile. D’altro canto si sa, le donne rappresentate dalla Campion sono bistrattate ma di una forza interiore granitica, uahaha

 

Storia di una repressa e depressa, volutamente inconsolabile, incasinata, attiragrane, professoressa di letteratura che durante un’assurda ricerca linguistica si troverà nel luogo sbagliato al momento meno opportuno, vedrà ciò che non doveva e non ne sarà neppure consapevole, ma ciò non le impedirà di rimanere invischiata in un’inappropriata relazione con il responsabile delle indagini. Perché ci sarebbe potuto essere molto da scoprire e confermare però l’unica cosa certa è che le menti più aduse a questi plot faranno esperienza di molteplici dejà vu e tutti gli altri si perderanno in una trama banalotta e mal, anzi, decisamente non assemblata.

 

Una debacle in cui Mark Ruffalo e il suo poliziotto tanto ambiguo con quei baffoni un po’ seventies (che ci fa provare nostalgia dei pantaloni a zampa), nelle cui mani è lasciato il finale è il più convincente, anche se non riesce (e come potrebbe?) a salvare la situazione da quanto è grottesca. Assurdamente, infatti, anche il ruolo-cameo di Kevin Bacon riesce a essere fastidioso e inutile nonostante il suo personaggio potesse (e dovesse) generare in noialtri nuovi sospetti utili alla suspense di una storia che, in quanto a struttura, partiva avvantaggiata: si basa sull’omonimo romanzo. L’aspetto più singolare è, infatti, il focalizzare sui personaggi e non sull’intreccio thriller, dimenticando però di analizzare e, soprattutto, di condividere la loro psicologia. E così assistiamo ad un film imbarazzante per quanto non sviluppato.

 

In situazioni normali lanceremmo un suggerimento, ossia di dedicarsi ad altro genere, qui invece sappiamo che anche quando dedita ad illustri biografie di epoche dalle stucchevoli sovrastrutture (il più o meno recente Bright Star è stato commentato proprio su queste pagine) la Campion ottiene risultati che poco si discostano dal presente marasma.

View Comments (4)

  • Un pezzo di bravura assoluto! La recensione, non il film! Qualora mai facessi un the best of Le recensioni di V. questa dovrebbe essere quella di apertura.

  • assolutamente d'accordo sulla recensione. un film inguardabile, e poi non capisco perchè la co-sceneggiatrice Susanna Moore, autrice del libro dal quale è tratto il film, abbia cambiato il finale. finale che ci avrebbe regalato almeno la soddisfazione di vedere l'attonita meg ryan fare una brutta, bruttissima fine...

    • Ah, ma tu guarda un po' ... questa volta ha addirittura adattato la storia alle proprie esigenze!
      Theda, grazie del passaggio e di aver condiviso una info che immagino fosse un sospetto di molti ;)

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