E’ un dangerous drama quello a cui assistiamo per quasi due ore in una sala gremita dell’intellighenzia dislocata nel mio italico anfratto. Tutti parevano soddisfatti, solo una voce fuori dal coro ha lamentato un potenziale massacro da parte del doppiaggio. Per una volta non ho letto il libro su cui si basa la sceneggiatura, non conosco così bene la storia e non ho visto il film in lingua originale all’ultimo festival del cinema di Venezia. Quindi, me lo sono goduto per quello che era all’anteprima già completa di doppiaggio e… il dubbio ha preso il sopravvento.

Una fotografia pacata, gentile e sfumata ha incorniciato una recitazione dignitosa e una riproduzione ricca di particolari che con dovizia ha mostrato luoghi e costumi dei tempi che furono. Per il resto non sembrava neppure di assistere a un’opera di Croneberg. Il regista che (esattamente in quest’ordine) ho amato in “ExistenZ”, mi ha lasciata assai perplessa in “The Jacket” ed ho odiato in “A History of Violence” avrebbe potuto dar vita ad un’opera che rompeva gli schemi, che freddamente andava controcorrente e mostrava l’umanità e le debolezze di tre menti illuminate, grazie alle quali molti possono beneficiare oggi di un sostegno psicologico altrimenti impensabile, invece il cineasta pare abbia deciso di addentrarsi in uno schema che non gli si confà, di standardizzarsi proprio con un argomento che non è difficile immaginare lo solleticasse da un bel po’.

 

Parliamo, infatti, di psicoanalisi e in particolare dello scontro che ha segnato una scienza e un secolo: Freud vs Jung, il maestro che si scontra con il discepolo, il giovane che supera il suo mentore. Il tutto senza dimenticare che queste persone illuminate diedero i natali a una nuova scienza, favorirono il suo riconoscimento come disciplina, dimostrarono la sua efficacia in un periodo storico molto particolare e delicato: l’inizio del ‘900 con i regimi totalitari che in Europa iniziavano a bussare alla porta.

Non è un film storico, non è biografico e non pretende di essere fedele alla corrispondenza che possa essere giunta ai giorni nostri. E’ l’adattamento su pellicola dell’opera teatrale “The talking cure” di Christopher Hampton, le cui vendite (probabilmente) s’impenneranno nelle prossime settimane, e… Cronenberg l’ha reso un Harmony! Sembrava di assistere alla trasposizione di uno dei volumi dal dorso fucsia, una partenza in salita per un’opera in caduta libera sino alle ultime battute, dove si avverte il trascorrere di ogni minuto (anzi, un minuto ve lo offriamo al termine di questo post).

 

Una Keira Knightley convincente nella versione sadomaso e meno nelle vesti mediche, Michael Fassbender glaciale e perfettamente calato nella parte che si confronta con il (crediamo) pupillo del regista, Viggo Mortensen alias Sigmund Freud, piuttosto annoiato (o forse noioso). Un triangolo definito d’amore, che vorrebbe essere morboso, ma è solo ben poco avvincente. Scene di coppie affievolite, di passioni sfrenate e di amori che superano lo scorrere del tempo, ma che non riescono a coinvolgere chi è seduto in sala a dimostrazione del fatto che il polso del regista possa fare una gran differenza. Non è dato sapere il motivo per cui Cronenberg abbia deciso di aprire l’uscio della mente dei protagonisti per poi tenersi a debita distanza, non si addentra nei meandri dell’inconscio umano e non compie alcun tentativo di mostrarcene la sua interpretazione. Incredibilmente è così riuscito a creare un’opera insipida che altro non pare se non una debole, sfuocata e anonima storia d’amore.

 

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