MFF 2011 – Lunghi in concorso: Dernier étage gauche gauche (Top floor, left wing)

Cosa pensate potrebbe accadere se una mattina si presentasse in un palazzo di edilizia popolare, molto fatiscente, di un quartiere periferico di una grande città, un ufficiale giudiziario il cui compito è notificare lo sfratto ad una famiglia algerina? Di sicuro non che la polizia locale, in un eccesso di zelo, citofoni alla persona sbagliata, che ciò conceda il tempo al giovane che dorme nell’appartamento contiguo di svegliarsi, percepire parole sparse attraverso i muri, nel dormiveglia fraintendere molto e scivolare così in una crisi di panico che lo porterà ad impugnare per la prima volta una pistola e a rapire l’ufficiale giudiziario stesso nel momento in cui si presenta in casa con il padre.

Si apre così questa commedia francese che, in circa un anno di vita, è stata premiata un po’ ovunque, tra cui all’ultima Berlinale, primo riuscitissimo lungometraggio di Angelo Cianci. Gentile, sagace, scoppiettante pellicola che tocca molti temi scottanti (alcuni soprattutto per i francesi) e si districa dalla tela creata con indiscussa abilità. Se inizialmente siamo di fronte ad una classica crisi di panico dai risvolti tragi-comici, talvolta ai limiti della parodia, in breve si comprende come il vero problema sia la totale assenza di stima nei confronti del genitore (nonostante il ragazzo abbia superato l’adolescenza da un bel pezzo), cosa che creerà un insolito sodalizio tra il rapito (François) e padre del rapitore (Mohand) mentre sullo sfondo saranno sempre ben presenti continui rimandi alla situazione precaria e di povertà in cui versano i nostri personaggi, ma non verrà mai loro tolta la dignità e/o si scivolerà in battute banali o volgari, al contrario l’unica scivolata a cui si assisterà sarà quella causata dal lavandino malconcio della cucina che provocherà non poche risate :)

Di cavalcare l’onda dell’oppressione e della discriminazione non se ne parla proprio: immigrazione, emarginazione, fermenti delle periferie, sono solo i presupposti di battute che ci accompagneranno sino a un finale dove la Sindrome di Stoccolma è un eufemismo rispetto alla trasformazione che avrà il povero François, dopo aver vissuto un giorno interminabile dalle continue “sorprese” negative. Il trio che abbiamo davanti, infatti, è davvero particolare: un figlio scemo, duro di comprendonio, che sa solo fare casini; un padre che pare faccia del proprio meglio per essere l’emblema dello smidollato fallito agli occhi di tutti e un ufficiale giudiziario dalla vita personale che va a rotoli senza soluzione alcuna. Tre uomini tanto distanti, ma terribilmente uguali, uniti da una faticosa quotidianità, dall’assenza di fiducia in sé stessi e da un futuro incerto e, molto probabilmente, infelice (anche se per motivi diversi).

Nonostante lo script sia ricco di continui ribaltoni, che mantengono il ritmo molto alto dal primo all’ultimo minuto, il filo conduttore sarà sempre la parola e vedere come in un triangolo, tutto maschile, in pochi metri quadrati (il film si svolge in uno spazio così piccolo da poter essere il palco di un teatro), gli equilibri cambieranno a causa della necessità e delle rivendicazioni del proprio io. Una commedia quindi, o forse una tragedia (simil-greca), sull’essere umano, talmente saggia da dimenticare il politicamente corretto a tutti i costi e dal creare così la migliore delle rispettose satire politiche.

Fossero tutte così le opere prime…

 

 

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