Scrivo con un po’ di disagio, perché non vorrei dire terrificanti banalità da tuttologa.

Però quest’estate ho avuto modo di riflettere, e allora…

…per me un’azione/cosa che ha senso funziona più o meno così: input – processo – output, e l’output è un risultato, una soluzione, qualcosa che insomma corona, nel bene o nel male, l’inizio, ciò da cui è partito: conferendo un perché, canalizza l’intenzione e l’energia verso una meta, una soddisfazione finale.

Beh, una prima avvisaglia dell’odierna “sottrazione di senso” l’avevo avvertita pesantemente quest’inverno quando, prendendo in mano una grammatica italiana degli anni ’80, ero rimasta affascinata, stupefatta e infine amareggiata leggendola, perché mi rendevo conto che nella sua semplicità offriva ai ragazzi la possibilità di comprendere NEL PROFONDO certi meccanismi linguistici, perché… perché ne dava il senso!!!

Cioè, non aveva tutte le cose fighe delle grammatiche attuali (cd rom – percorso alternativo per stranieri – facilitazioni per dislessici – esercizi graduati – mappa concettuale – schema – capoversi etc.etc.) ma faceva capire. E non è questo ciò che chiediamo a un testo?

Quest’estate ho girato un po’, e … stessa sensazione.

Dovete sapere che la vostra Mata Hari è un bel donnino piuttosto socievole e amante del ballo, del buon vino e della conversazione intelligente.

Beh, quest’estate per caso ho avuto occasione di frequentare un paio di compagnie di universitari e …

… e la cosa che più mi ha lasciato basita, ancora una volta, è stata la mancanza di senso.

La sottoscritta, da ragazza, cercava di fare di tutto per divertirsi, emozionarsi e sentire dentro di sé una traccia del mondo esterno, e non ha perso questa abitudine alle soglie dei 40 anni… per cui poteva essere uguale andare a cantare messa (perché provavo un senso di sacro dentro di me modulando le note degli inni, pur non essendo mai stata una fervente cattolica), andare a ballare in una piazza o ridere e scherzare a un tavolo con amici davanti a del buon cibo, perché erano – e sono – tutte azioni che mi restituiscono senso, e soddisfano il mio essere.

Ma quest’estate di gioia ne ho vista ben poca, e ben poca soddisfazione nelle azioni messe in atto da parecchie persone che ho incontrato: come se il meccanismo input-processo-output si fosse in un qualche modo bloccato, come se la soddisfazione fosse pietrificata in un eterno rimandare, in un turbine autoreferenziale.

E poi ho pensato: è paura dello scambio umano, con gli altri o anche con sé stessi.

Arrivavo da una serata divertentissima: avevo beccato un locale dove facevano revival e musica etnica, sulla spiaggia, e avevo ballato fino alla morte con dei ragazzi sudamericani.

Poi, la musica finisce – era poco oltre mezzanotte – per ordine del maledetto sindaco, e la mia amica mi dice “Andiamo al ***, che c’è gente che conosco, ho accennato che saremmo passate”. Ok.

Appena sono all’ingresso sento che mi prende la camurrìa, capisco che in questo posto spenderò tanto, berrò male e non mi divertirò, ma ormai dobbiamo entrare, siamo state annunciate.

Ci portano nella zona dei tavoli, dove un dj non adolescente per fortuna mette bella musica.

E attacchiamo a ballare.

Dopo qualche minuto, io e V*** ci guardiamo intorno e ci accorgiamo che … siamo le uniche.

Eppure siamo circondate da ragazzi e ragazze splendide: gli omogeneizzati, l’apparecchio ai denti, lo step e la platinatura delle chiome hanno dato risultati insperati, certamente non paragonabili alla mia generazione inizio anni ’70. Ma… e questa è la cosa grave … non reagiscono alla musica.

Torniamo a quanto detto prima: input-processo-output.

Se le mie orecchie percepiscono un suono afro, mi verrà da muovere le braccia e inarcare la schiena, se avverto una rumba pesterò i piedi battendo le mani, ad un ritmo orientale farò ondeggiare il bacino, sulla patchanka produrrò movimenti sincopati, sullo ska mi verrà da saltare!

Loro, niente.

Si muovono intorno alla pista come zombies, il cocktail – e quanti se ne fanno! – in una mano, eventualmente la sigaretta nell’altra, lo sguardo vacuo, il desiderio inesistente.

Ondeggiano appena appena, clamorosamente fuoritempo, e appena possono si sottraggono a questa cosa – che evidentemente è una tortura – per fare in un qualche modo gli scemi e sfogare la tensione: fingere di picchiarsi con gli amici – come fanno i miei alunni di terza media – o dirsi qualcosa che provoca finte risate generali, a mascherare un disagio palpabile.

Non si stanno divertendo, hanno speso un sacco di soldi e non hanno altra scelta perché il loro orizzonte è tutto qui, e non possono nemmeno ammetterlo a sé stessi.

Ed emerge in loro un vuoto, cui non sanno o vogliono dare un nome, che li spinge a vivere in questo mondo a due dimensioni, fatto di immagini e gesti, ma non di sostanza, sangue, soddisfazioni.

Un vuoto che li spinge a stare con una ragazza perché è carina, non perché ci fan bene l’amore, e a stare in pista fino alle 6 del mattino perché si fa così, non perché si divertono.

E li vedo tutti drammaticamente figli dello stesso vacuum, loro e quelli che vanno ai rave-party – che parimenti ho conosciuto -, non percepisco alcuna distinzione, se non che questi sorridono al sistema e gli altri fingono di starne fuori.

E mi prende una strana tristezza, e anche una gran rabbia, perché penso a come ci siamo ridotti, e che non ha senso più proibire le cose, perché tanto non c’è il desiderio di farle.

E’ ovvio che non tutte le persone siano così, ma mi sembra che la percentuale di anestetizzati (dal greco anà aisthanomai – senza sentire) sia in crescita vertiginosa, sia fra i ragazzi che fra le persone della mia età.

Ma vi immaginate se uomini e donne nati negli anni ’30 avessero avuto questa libertà?

Avrebbero ballato, riso, scherzato, scambiato esperienze, baci, lacrime, qualcuna sarebbe rimasta incinta…

Avrebbero – parola oggi abusata – comunicato.

E invece … basta, la pianto qui.

Grazie a Dio, vivo diversamente, e non lo so se sian stati gli sberloni quando facevo cazzate, la possibilità di sbucciarmi le ginocchia in cortile fino a sera o la presenza di una certa follia familiare, la stessa che portava mia nonna a ballare con la stampella quando non si reggeva più in piedi … fatto sta che inizio a capire perché da un po’ di tempo i film di zombies sbancano al botteghino.

Non sono più spauracchi.

Sono specchi.

Zombie al ballo