Recensione romanzo “Il Duka in Sicilia” di Vittorio Buongiorno

Non stupisce che “Il Duka in Sicilia”, gradevolissimo romanzo di Vittorio Buongiorno, sia nato come soggetto cinematografico: lo potevano far supporre sia l’ambientazione – uno sperduto paesino siciliano perfettamente tratteggiato – che i ritratti divertenti e divertiti dei protagonisti, godibili nella loro caratterizzazione.

E non stupisce neppure che “Il Duka in Siclia” sia diventato uno spettacolo musicale in cui la lettura del testo è stata accompagnata dalle note di Matteo Zucconi: l’amore assoluto per le sette note e per il jazz in particolare che traspare da ognuna delle facciate del romanzo lo meritava ampiamente e lo lasciava, in qualche misura, presagire.

La trama, vivace ed incalzante, prende vita basandosi su un fatto storicamente accaduto: dal 17 al 19 luglio 1970 si tenne infatti una manifestazione musicale pomposamente definita, anni dopo, come la Woodstock tricolore. La definizione è probabilmente eccessiva, ma fatto sta che – davanti ad oltre ottantamila spettatori – si alternarono sul prato della Favorita artisti internazionali del calibro di Aretha Franklin, Brian Auger, Johnny Halliday, Tony Scott e, naturalmente, Duke Ellington. Ed è immaginando l’organizzazione di una festa padronale in un paesino dell’entroterra per la quale un improbabile impresario sembrerebbe poter garantire la partecipazione del Duka che Vittorio Buongiorno costruisce il suo racconto.

Un plot che coinvolge una faida familiare, un giovanotto volato a cercare fortuna negli States, un prete fumatore che non vuol mollare la parrocchia, due anime in fuga, qualche picchiatore, due gnocche (una delle quali non troppo sana di mente) ed una schiera di musicisti, improvvisati o meno, pronti a riprendere in mano strumenti abbandonati da anni e a fare la propria parte per salvare la chiesa del paese. Fra pranzi che durano interi pomeriggi e amori clandestini, aleggiano in sottofondo (è proprio il caso di dirlo) le note di un jazz malinconico e profondo, che – nell’attesa dell’arrivo del grande musicista, sempre più in forse – sembra voler accompagnare su uno spartito che tutti conosciamo bene: quello composto da aspettative disilluse, grandi speranze e monumentali frustrazioni.

Che siate o meno appassionati di jazz, ve lo consiglio: un romanzo da leggere, e da ascoltare con orecchio ben aperte.

Non stupisce che “Il Duka in Sicilia”, gradevolissimo romanzo di Vittorio Buongiorno, sia nato come soggetto cinematografico: lo potevano far supporre sia l’ambientazione – uno sperduto paesino siciliano perfettamente tratteggiato – che i ritratti divertenti e divertiti dei protagonisti, godibili nella loro caratterizzazione.

E non stupisce neppure che “Il Duka in Siclia” sia diventato uno spettacolo musicale in cui la lettura del testo è stata accompagnata dalle note di Matteo Zucconi: l’amore assoluto per le sette note e per il jazz in particolare che traspare da ognuna delle facciate del romanzo lo meritava ampiamente e lo lasciava, in qualche misura, presagire.

La trama, vivace ed incalzante, prende vita basandosi su un fatto storicamente accaduto: dal 17 al 19 luglio 1970 si tenne infatti una manifestazione musicale pomposamente definita, anni dopo, come la Woodstock tricolore. La definizione è probabilmente eccessiva, ma fatto sta che – davanti ad oltre ottantamila spettatori – si alternarono sul prato della Favorita artisti internazionali del calibro di Aretha Franklin, Brian Auger, Johnny Halliday, Tony Scott e, naturalmente, Duke Ellington. Ed è immaginando l’organizzazione di una festa padronale in un paesino dell’entroterra per la quale un improbabile impresario sembrerebbe poter garantire la partecipazione del Duka che Vittorio Buongiorno costruisce il suo racconto.

 

Un plot che coinvolge una faida familiare, un giovanotto volato a cercare fortuna negli States, un prete fumatore che non vuol mollare la parrocchia, due anime in fuga, qualche picchiatore, due gnocche (una delle quali non troppo sana di mente) ed una schiera di musicisti, improvvisati o meno, pronti a riprendere in mano strumenti abbandonati da anni e a fare la propria parte per salvare la chiesa del paese. Fra pranzi che durano interi pomeriggi e amori clandestini, aleggiano in sottofondo (è proprio il caso di dirlo) le note di un jazz malinconico e profondo, che – nell’attesa dell’arrivo del grande musicista, sempre più in forse – sembra voler accompagnare su uno spartito che tutti conosciamo bene: quello composto da aspettative disilluse, grandi speranze e monumentali frustrazioni.

 

Che siate o meno appassionati di jazz, ve lo consiglio: un romanzo da leggere, e da ascoltare con orecchio ben aperte.

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