Recensione Lo stato dell’Unione, di Tullio Avoledo

Come sempre quando vado a trovare i miei mi fermo – prima di ripartire – a guardare la libreria in camera mia. Che se a Milano avessi lo spazio, non potrei evitare di portarmi via tutti i miei libri, e riunirli in un’unica soluzione.

Non posso, ed è un peccato: un po’ perchè – inevitabilmente – finisco per passare ore in libreria a domandarmi “Questo ce l’ho o me lo avevano prestato? Vuoi vedere che mi è rimasto a Monfalcone?”. E un po’ perchè i libri invecchiano, ingialliscono, si intristiscono un po’.

Natale però è sempre un buon momento per sfidare la legge di non compenetrabilità dei corpi ed utilizzare gli spazi lasciati a disposizione in valigia dai regali portati ai parenti. Quest’anno, oltre ad aver notato che mi toccherà dotarmi di una nuova copia de “Il pendolo di Foucalt” – che l’originale si è disfatto fra sottolineature e riletture mensili – ho pensato di riunire a Milano tutti gli Avoledo, trascinando in Lombardia “Lo stato dell’Unione”.

Ci sono almeno due cose che mi convincono nei romanzi di Avoledo, e la prima è lo stile, direi unico, di scrittura: mi piacciono gli autori di cui posso riconoscere la mano anche senza sbirciare il nome in copertina, e lo scrittore friulano è sicuramente fra questi. Azzardando un parallelo che gli farebbe sicuramente piacere, in questo lo assimilerei a Kurt Vonnegut e a pochi altri, e devo confessare di non essere mai mai mai rimasto deluso da uno dei suoi romanzi.

Aggiungerei, ed è la seconda medaglia che gli appunto idealmente sul petto, che Avoledo riesce a muoversi agilmente nel sottile confine fra la scrittura “di genere” – alcune tematiche comuni sono affrontate costantemente nei suoi romanzi – e la capacità di non proporre libri sempre identici ai precedenti: anche in “Lo stato dell’unione” assistiamo allo svolgersi di una trama godibilissima, imbevuta di fantascienza e fantapolitica, osservata con lo sguardo umanissimo del protagonista (un pubblicitario in quasi-disgrazia costretto ad accettare l’organizzazione di una campagna per L’Identità Celtica della Regione…) ed arricchita da una side-story altrettanto intrigante, protagonista l’ex astronauta Neil.

E per concludere, un’altra caratteristica costante nella poetica letteraria di Avoledo e naturalmente presente anche ne “Lo stato dell’unione” è la musica: sono romanzi infarciti di citazioni blues e jazz che costringono chi – come me – è piuttosto a digiuno del genere a vorticose ricerche su Youtube, devo ammettere ricche di soddisfazione.

Alla musica, dunque, dedichiamo una citazione da “Lo stato dell’Unione”:

“Adesso ascolti Eleni Karaindrou” fa, scimmiottando un accento blasé sul nome dell’artista. “Sai cos’è un indice della nostra decadenza? Lo vuoi sapere? E’ tu che ascolti Eleni Kacatù, ascolti Brad Merdau … musica svigorita, intellettuale, fatta per l’ozio. Musica del cazzo che passa dall’orecchio al cervello, senza passare per lo stomaco. Senza passare per il fegato. Per i coglioni. Mentre tutto intorno a noi c’è un mondo che si sveglia al ritmo di una musica energica e vitale. Un mondo che ha trombe e tamburi nella colonna sonora. Che rende lode in musica ai vecchi dei combattivi e sanguinari. Hai mai sentito certe musiche slave? Musiche contadine, energiche, vitali. Quando le hai sentite, capisci da dove saltano fuori la violenza. I Kalashnikov. La pulizia etnica. E la musica africana?”

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