Recensione romanzo Una forma di vita di Amelie Nothomb

Un romanzo epistolare è, ci rivela Wikipedia, una particolare forma di racconto in cui “non si ha un ritmo narrativo diretto ma ci si affida allo scambio di lettere tra personaggi.”.

In senso strettamente tecnico, dunque, “Una forma di vita” non può essere definito “epistolare”: è evidente però che lo scambio di lettere fra l’autrice ed il soldato americano di stanza a Baghdad è la colonna portante dell’ultima fatica di Amelie Nothomb. Lettere di carta e inchiostri vergati con la penna, distanti dalle (ammettiamole, un po’ più fredde) mail o da ancora più raggelanti SMS: difficile non avvertire l’importanza che rivestono per l’autrice questi fragili scambi affettivi intramezzati dai tempi postali, perfettamente riportati all’interno della trama del libro.

Un romanzo agile, come è negli usi della scrittrice belga, e di forte impatto emotivo: nella storia di Melvin Mapple, soldato americano di stanza in Iraq, viene esplorato ancora una volta la tematica del rapporto con il cibo (l’obesità a cui si costringe Melvin è un vero urlo, anche politico, contro la guerra). Il vero tema dominante è quello della solitudine e della mancata accettazione da parte “dell’altro”: con il suo stile a volte dissacrante ma quasi mai sopra le righe, la Nothomb ci conduce verso cespugli di interrogativi che bisogna voler cogliere pazientemente, una dopo l’altra.

Mi sono goduto il piacere di sentire Amelie raccontare il suo ultimo romanzo alla Feltrinelli di Piazza Piemonte. L’immagine può sembrare quella di una diva che si piace moltissimo, ma vi assicuro che l’ironia di alcune sue risposte e quella sorta di magico feeling con l’esercito dei suoi lettori sono stati una scoperta ed un piacevolissimo accompagnamento alla lettura.

Amelie Nothomb alla presentazione del nuovo romanzo presso la libreria Feltrinelli di Milano (foto Alfonso d'Agostino)

 

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