Medesimo luogo diverso genere, la proiezione serale: ossia l’ultimo film di finzione di Ermanno Olmi, che mantenendo fede a quanto dichiarato due anni fa, non fa più lungometraggi di fantasia, ma si dedica ai documentari. Data l’assenza del regista, il film è stato introdotto sobriamente dal primo attore, che sembra a  tutt’oggi ancora toccato dall’esperienza.

Sono fermamente convinta di non avere la forma mentis ed il background necessari a commentare questo film, riporto quindi fedelmente le parole del mio “assistente” durante questa maratona, perché ritengo siano quelle giuste che però dalla mia penna non sarebbero mai sortite:

Cento chiodi sono quelli con cui un (forse troppo) giovane e bello (ma così somigliante all’immagine del Cristo arrivata a noi per il tramite della Sindone) inchioda al pavimento della biblioteca della dotta Bologna il gravame del suo sapere per cercare una vita semplice e priva di sovrastrutture tra le golene del grande fiume italiano.
Olmi, forse troppo spesso enfaticamente chiamato Maestro, ci regala uno spaccato di una vita che comunemente ed erroneamente diciamo non esistere più e che invece siamo solo noi “cittadini” a non vedere (o a vedere solo al cinema), per colpa di uno sguardo recluso da palazzi troppo alti e barriere spesso autoimposte.
Ed è in questo bucolico contesto tanto caro al nostro cinema (Avati da sempre, Bisio da poco) che l’anelito delle anime semplici rinviene nel nostro bel Raz Degan il Salvatore tanto atteso da sempre, in virtù peraltro della sua maestria nell’uso del Verbo conferitogli dalla sua formazione.
Cinema per palati semplici e di formazione preferibilmente cattolica ci racconta che l’anelito alla spiritualità di ognuno di noi può/deve estrinsecarsi nella quotidianità o sta forse solo insinuando che in fondo l’attesa messianica può trovare risposta in un uomo qualunque in fuga da se stesso?

(ndr: il meraviglioso corsivo in blu qui sopra non è mio. Nè potrebbe esserlo, mi inchino. Alf)