Recensione romanzo Marina di Carlos Ruiz Zafon

Ho letto l’ultima parola di “Marina”(che per inciso è “risposte”). E sono corso nell’armadio dei fumetti, scaraventando in aria file di Topolino e qualche Martin Mystere, sopravvissuti alla fase “vendo qualsiasi cosa su ebay”. Cercavo un fumetto in particolare, un Dylan Dog. E mi sfuggivano espressioni poco eleganti perchè non lo trovavo.

Poi, l’illuminazione: era un albo particolare, per me, e avevo pensato di metterlo in libreria, proprio al fianco di “Maus”, “Neven” e altri fumetti che hanno fatto la storia di quest’arte un po’ bistrattata. E lì l’ho trovato. E’ il numero 74, “Il lungo addio”.

(ti leggo nella mente: “ma non era una recensione di Marina?”. Vero, ma hai mai letto una recensione normale su questo sito?)

E’ andato in stampa nel novembre 1992 – cavolo, come passano gli anni – ed è bellissimo. Una rapida navigata su Google mi ha fatto scoprire con piacere che è uno dei numeri più amati. E lo capisco bene, davvero. Racconta, con una poesia e una delicatezza straordinaria, della storia d’amore di un giovanissimo Dylan con una ragazza del luogo di villeggiatura, una delle “ragazze del mare” che, più o meno numerose, hanno costellano la nostra adolescenza.

Un amore inizialmente quasi infantile, poi più consapevole, destinato ad una fine forse già immaginata e quasi annunciata da un Groucho sensazionalmente compunto, partecipe, amico.

Lei, la “lei” di questa storia d’amore, si chiama Marina, ed è disegnata così:

 

“Una ragazza vestita di bianco avanzava verso di me, pedalando lungo la strada in salita. L’alba in controluce permetteva di scorgere la sua silhouette sotto il vestito di cotone. I lunghi capelli color fieno ondeggiavano coprendole il volto. Rimasi immobile, guardandola avvicinarsi, come un imbecille durante un attacco di paralisi. (…) Risalii con lo sguardo il vestito che sembrava uscito da un quadro di Sorolla fino a imbattermi nei suoi occhi, di un grigio così profondo da poterci cadere dentro. Erano fissi su di me con una espressione sarcastica. Sorrisi e feci la mia migliore faccia da idiota”.

E’ questa la descrizione che Oscar Drai, studente di un collegio barcellonese e io narrante del romanzo, fa della Marina di Zafon. Supero l’impressione che le due Marina si sovrappongano perfettamente, per perdermi in queste pagine che mescolano così abilmente mistero e sentimento, in una miscela gotica ed intrigante che Zafon ha saputo dirigere mirabilmente.

(hai visto? Con la mia mente contorta, piena di dubbi e di riferimenti, di ricordi e di rimpianti, immagine dopo immagine, una madeleine ed una emozione, alla fine ci siamo arrivati, a “Marina”)

Zafon ha il dono della scrittura, innegabilmente. E’ il suo secondo libro che ho la fortuna di leggere (primo, naturalmente, “L’ombra del vento”) e ritrovo immutata la sensazione di un autore che sappia esattamente come costruire una storia appassionante, senza per questo piegarsi alla facile ricerca del best seller. “Niente trucchi da quattro soldi” avrebbe scritto Carver, ed il romanzo ti trascina ugualmente in una Barcellona traboccante di ombre ed illusioni, di cimiteri e paure: una sorta di bosco incantato cittadino che fa da cornice a tre personaggi che restano e colpiscono.

Al di là delle mie oniriche suggestioni fumettistiche, è un libro che vale la pena affrontare; confesserò che alcune delle scelte narrative al limite del “fantasy” non mi hanno convinto al cento per cento, ma il delicato ed etereo delinearsi del finale valgono – decisamente – il tempo in cui lo divorerete.

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