Immagine di Vestivamo da Superman

“Nel complesso la mia infanzia è stata abbastanza buona.

I miei genitori erano pazienti e normali,su per giù.

Non mi tenevano legato in cantina. Non mi chiamavano “Quello”. Sono nato maschio e mi è stato consentito rimanerlo.”
Premessa: io adoro Bill Bryson. Lo adoro al punto che non credo recensirò mai il suo “Breve storia di (quasi) tutto”, che ha avuto il potere di farmi addormentare di schianto un paio di volte e che non sono fiero di annoverare fra i pochi libri che non sono riuscito a portare a termine.

“Vestivamo da Superman” è forse uno dei suoi lavori più riusciti; un volume in cui il Bryson magnifico narratore di viaggi torna letteralmente a casa, e racconta l’infanzia in una America degli anni 50 con le sue speranze e le sue gioie, e quelle idiosincrasie che gli States si trascinano fino ad oggi.

Ho pensato fosse giusto inserirlo nella mia libreria Anobii proprio questa mattina quando, rileggendolo in metropolitana, mi sono reso conto che stavo suscitando l’interesse dell’intero vagone, con delle risatine prima e con vere e proprie crisi respiratorie immediatamente dopo. Che – se non ricordo male – era esattamente ciò che era successo alla prima lettura, con l’aggravante di essermi sganasciato in un serissimo volo per Berlino.

Da leggere, per riflettere un po’ e sorridere molto, magari nella comoda solitudine del proprio lettuccio…