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SBAGLIATA
di Francesca Golzio

Quante volte aveva già visto quella scena? Più di quante fosse in grado di contarne. Una piazza di mercato: il trambusto della folla, i versi degli animali e il cigolio dei carri. L’odore acre e pungente del sudore: schiavi, ammassati come bestie. Gli sguardi freddi e calcolatori dei compratori, che, in effetti, li scrutavano proprio come avrebbero osservato un bue da soma o un cavallo da traino, attentamente, soppesando pregi e difetti, proprio come lei stessa aveva fatto in innumerevoli occasioni prima di acquistare un’orata o un filetto d’agnello.

Metteva sempre tutto il suo impegno nei compiti che le venivano assegnati: era suo dovere, per quello e null’altro esisteva. Eppure, evidentemente, sbagliava qualcosa. Forse, era lei stessa a essere sbagliata. Forse, era per quello che nessuno la voleva: era una merce guasta. C’era sempre qualcuno pronto a prenderla con sé – era bella – ma, presto o tardi, tutti si stufavano della sua inettitudine, così quel circolo vizioso ricominciava da capo e lei cambiava padrone.

Era giusto così: era un oggetto, come sua madre prima di lei. Eppure… Perché allora sentiva quel vuoto, dentro? Perché c’era, in lei, una voce profonda e primordiale che mai smetteva di tormentarla col dubbio che quello, in fondo, fosse sbagliato, terribilmente sbagliato? Era piuttosto sicura che una pietra o un pettine non fossero turbati da un tal demone interiore. Era, forse, fatta male? Ogni tanto si chiedeva se gli schiavi fossero davvero oggetti, alla stregua di una roccia o di un pezzo d’osso.

Perché? Perché non poteva smettere di cercare una risposta? Era colpa di quelle voci se finiva sempre per distrarsi e combinava qualche disastro: un vaso infranto, una quaglia carbonizzata, un cesto di uova rovesciato… Era il suo difetto invisibile, il motivo per cui – non aveva dubbi in proposito – si sarebbe presto ritrovata nuovamente in vendita.

Un rude strattone la riscosse e il mercante la condusse sul retro del tendone per consegnarla al novello padrone. «Come ti chiami?» domandò l’uomo, mentre scioglieva rapido i lacci, liberandole i polsi scorticati. Non rispose. Non capiva: nessuno le aveva mai dato un nome, perché avrebbero dovuto? Lei era solo un oggetto. Il giovane le scostò dal viso una ciocca di capelli e lei, suo malgrado, rabbrividì, mente la mente le si riempiva di immagini raccapriccianti. Ma il ragazzo si limitò a sistemarle sulle spalle il proprio mantello.

«Che ne dici di Cari?» “Cari” il padrone le aveva dato un nome… perché? Non aveva senso: gli unici ad averne uno… Solo le persone avevano un nome. Dimentica del divieto che aveva osservato per tutta la vita, la fanciulla cercò lo sguardo del suo possessore, ma in quegl’occhi azzurri trovò solo rispetto e compassione. Possibile che la considerasse davvero sua pari? Quando lui le sorrise, la giovane scoppiò in lacrime. Non era sbagliata, non lo era mai stata: era una persona, era Cari, e la sua ricerca era finita, inaspettatamente, sull’orlo di due pozzi color del mare.