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FATO

di Emiliano Sclame

Ero immerso, completamente. Le persone intorno a me, tante, caotiche e rumorose, erano sparite dalle mie percezioni. Le parole, al contrario, si rincorrevano senza placare la mia sete. Ero lì, fuso in un ibrido perfetto tra la mia mente ed il libro che tenevo in mano. Sfortunatamente, non mi accorsi nemmeno che il treno regionale aveva lasciato alle spalle la mia fermata. Fu solo il colpo secco del vento che urlava l’ingresso in galleria, ed il conseguente cambio di luce sulle pagine, a destarmi all’improvviso.

Mi guardai intorno smarrito, come appena sveglio. Maledissi il libro che stringevo ancora tra le mani. Avevo perso la mia coincidenza per l’aeroporto. Fui assalito dall’ansia: mancavano due ore al volo. Scesi alla fermata successiva e, non avendo a disposizione treni nella direzione opposta in un lasso di tempo ragionevole, chiamai un taxi.

«Aeroporto, grazie. Il più in fretta possibile» furono le mie laconiche parole al paffuto autista che scrollò le spalle ad invocare la provvidenza.

Capii il significato di quel gesto quando ci ritrovammo imbottigliati nel traffico. Arrivai all’aeroporto col cuore che pulsava martellante. Saltai tutte le code pregando le persone in fila. Arrivai all’imbarco troppo tardi. Imprecai al cielo, ingiuriando contro il libro che ancora avevo nella borsa. Persi il volo.

Andai di desk in desk, come a cercare il sacro Graal che mi avrebbe portato in Brasile. Trovai, con un modico sovrapprezzo di 800 euro, un volo diretto per San Paolo. Altre dodici ore di attesa per giungere a destinazione con solo cinque ore di ritardo sul piano originale. Non male. Mangiai un pasto veloce ed attesi pazientemente. A tenermi compagnia nelle ultime ore, il libro che tanto avevo insultato. Fui più attento e non persi il volo. Mi addormentai immediatamente dopo il decollo.

La voce del comandante in un inglese frettoloso catturò la mia attenzione. Eravamo a due ore dall’atterraggio e l’aeroporto di San Paolo era flagellato da una tempesta violenta. Saremmo atterrati a Rio de Janeiro. Misi a fuoco che, se non avessi mancato la fermata del treno, oltre a risparmiare quasi 900 euro, sarei giunto a destinazione evitando atterraggi imprevisti.

Nel caos più totale ci venne detto che avremmo dovuto aspettare almeno 24 ore prima del volo successivo. Con caparbietà trovai un treno che sarebbe partito nemmeno un’ora più tardi.

Comprai il biglietto e salii a bordo con la borsa a tracolla ed un ottimismo ancora intatto. Dopo venti minuti accadde l’imponderabile. Non a caso ero immerso nella lettura. Un boato che non pensavo potesse esistere rese sordi tutti i passeggeri. Fummo scagliati contro la parete mentre il treno deragliava. Urla, corpi, scompiglio. Poi il silenzio.

In seguito seppi che i sistemi di sicurezza del treno avevano compiuto il loro dovere evitando la strage. Molti feriti ma nessun morto.

Ero lontano da San Paolo, con diverse fratture e il viso insanguinato. Era troppo.

Fui portato in ospedale. Avevo perso ogni speranza di raggiungere i miei colleghi. Chiamai ed avvisai che non avrei partecipato al progetto che avrebbe potuto cambiare la mia vita lavorativa. Ero ad un passo dal pianto isterico, ma ancora vivo e finalmente lontano dal libro che era ormai era andato perduto nell’incidente. A sufficienza per non lasciarmi andare.

Tempo dopo, venne un addetto delle ferrovie in ospedale a comunicarmi che era stato allestito un recupero bagagli con gli oggetti che erano stati recuperati dopo l’incidente. La mia borsa, pensai, le mie cose.

Giunsi sul luogo, un enorme edificio adibito a magazzino temporaneo. Non c’era traccia delle mia borsa. D’un tratto rimasi senza fiato: il libro, quel libro, era ancora lì, intatto, pronto a raccontarmi il finale della storia che mi aveva incolpevolmente rapito e condotto in quell’assurda avventura.

Indeciso, firmai un foglio e mi accorsi che a consegnare le merci, incluso il mio libro, c’era una ragazza con un sorriso straordinario.

Due anni dopo sarebbe divenuta mia moglie.