Recensione de L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA, il nuovo film di Aki Kaurismäki al cinema dal 6 aprile.
Un inizio quasi da thriller: da un mucchio di carbone, su di un cargo proveniente dalla Polonia e appena attraccato al porto di Helsinki, emerge Khaled, profugo da Aleppo. Tutto nero di polvere, col sacchetto che contiene tutto ciò che possiede, rischia di finire investito dalla grossa macchina nera guidata dal commerciante Wikström: nessuno dei due può prevedere che i loro destini si incroceranno ancora.
Khaled è un ragazzo perbene, vuole fare le cose nel rispetto della legge, e dopo essersi lavato e cambiato si reca al commissariato, a presentare domanda di asilo. Ordinaria amministrazione, riempiti tutti i moduli necessari viene accompagnato ad un centro di assistenza. Parlando con gli altri ospiti capisce presto che le speranze di essere accolto sono poche. E un paio di volte lui e il suo nuovo amico Mazdak, nelle loro timide esplorazioni della città, devono vedersela con bande di picchiatori razzisti.
Dopo qualche settimana di inattività forzata Khaled riceve il temuto diniego: secondo una qualche Autorità Superiore senza cuore né cervello, Aleppo non è da considerarsi zona pericolosa, l’indomani mattina verrà caricato su un aereo e rimpatriato. La sua casa è stata bombardata, lui e sua sorella Miriam, con suo enorme rimorso perduta in Ungheria durante il viaggio, sono gli unici sopravvissuti della sua famiglia: da chi ritornerebbe? E se fosse rimpatriato non avrebbe più speranze di ritrovare la sua sorellina. Non gli resta che fuggire.
Contemporaneamente seguiamo la storia di Wikström, disilluso sessantenne rappresentante di camicie. Vuole dare una svolta alla sua vita, si è appena separato dalla moglie e decide di chiudere anche la sua attività. Col denaro incassato si gioca il tutto per tutto in una partita a poker in una sala da gioco clandestina. E vince. Quel denaro gli serve per coronare un vecchio sogno: aprire un ristorante tutto suo.
Rileva perciò “La Pinta Dorata”, scalcagnata bettola sull’orlo del fallimento, ereditando uno staff minimo – un cuoco, una cameriera e un direttore di sala – dalla professionalità a dir poco discutibile e una (scarsa) clientela di facile contentatura. Un giorno trova per strada, pestato a sangue da una squadraccia di neo-nazisti, il povero Khaled, terrorizzato. Da brav’uomo qual è Wikström decide di aiutarlo: lo ospita in magazzino e gli dà un lavoro nel ristorante, anche se è sempre desolatamente semivuoto.
Dopo una prima iniziale diffidenza ottiene la fiducia e la complicità dei suoi dipendenti, che si impegnano a proteggere Khaled durante le ispezioni al locale in ristrutturazione. Sì, perché, nel tentativo di guadagnare nuovi clienti, diventerà un ristorante di sushi. Ma non si rivelerà una grande idea, anche questo esperimento non andrà a buon fine.
Con questo film, cerco di fare del mio meglio per mandare in frantumi l’atteggiamento europeo di considerare i profughi o come delle vittime che meritano compassione, o come degli arroganti immigrati clandestini a scopo economico, che invadono le nostre società con il mero intento di rubarci il lavoro, la moglie, la casa e l’automobile.
Nella storia del continente europeo, la creazione e l’applicazione di pregiudizi stereotipati contiene un eco sinistro. Ammetto serenamente che L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA è per certi versi un cosiddetto film di tendenza, che tenta senza alcuno scrupolo di influenzare le visioni e le opinioni dei suoi spettatori, cercando al tempo stesso di manipolare le loro emozioni al fine di raggiungere questo scopo. Dal momento che tali sforzi falliranno immancabilmente, quello che ne resterà è, mi auguro, una storia onesta e venata di malinconia trainata dal senso dell’umorismo, ma per altri aspetti anche un film quasi realistico sui destini di certi esseri umani qui, oggi, in questo nostro mondo.
Aki Kaurismäki – Note di regia
Belle le parole del regista Aki Kaurismäki, le sue intenzioni sono chiare per tutto il corso del film: mostrare col sorriso sulle labbra lati della vita – in Finlandia come in tutti i Paesi cosiddetti progrediti – che troppo spesso rifiutiamo di vedere. Il tema dell’immigrazione era stato da lui già affrontato nel 2011 nello splendido MIRACOLO A LE HAVRE, ma qui l’operazione non gli riesce fino in fondo, a causa dell’eccessivo squilibrio nel trattamento delle due trame, che si fondono solo dopo quasi 40 minuti.
La storia di Khaled è raccontata con doloroso realismo, con affettuoso rispetto, con profonda e umana solidarietà. La stessa umana solidarietà che gli viene dimostrata da Wikström e dalla sua simpatica banda di personaggini strambi, tipici della poetica del regista: che qui sembrano però fuori posto, tanto sono buffoneschi ed eccessivi.
C’era insomma materiale per due interi film e troppi fili vengono lasciati a penzolare: personaggi interessanti vengono abbandonati, episodi che potevano essere sviluppati e approfonditi vengono chiusi senza spiegazioni, lasciando lo spettatore inappagato.
Ho poi trovato più fastidioso del solito l’abituale inserimento, del tutto a capocchia, qua e là, di inascoltabili brani anni 70 eseguiti dal gruppo finlandese, ormai invecchiato e un po’ imbolsito, che accompagna Aki Kaurismäki da almeno vent’anni. Va bene fare lavorare gli amici, tanti artisti ne hanno bisogno, ma questi (di cui purtroppo non sono riuscita a ritrovare il nome) fanno rivoltare le budella.
Qualche parola sugli attori: magnifico Sherwan Haji del ruolo di Khaled, nei suoi occhi si leggono dolore e rabbia, ma anche sogni fanciulleschi. 32 anni, curdo, diplomato all’Accademia d’Arte drammatica di Damasco, è stato protagonista di serie tv in Siria. Partito per amore nel 2010, ha proseguito gli studi alla Cambridge School of Art, dove si è laureato lo scorso anno. Oltre a dedicarsi alla recitazione ha scritto e diretto numerosi cortometraggi e video-installazioni. E’ anche un eccellente suonatore di saz, la chitarra saracena: le poche note che suona durante il film aiutano a sopportare l’indigeribile frastuono prodotto dei suoi colleghi finlandesi.
Altrettanto buona l’interpretazione di Sakari Kuosmanen nel ruolo di Wikström, sobrio e solido borghese, gentile fino all’ingenuità. Irriconoscibile, sotto quei panni grigi, il debordante cantante e chitarrista ex membro dei Leningrad Cowboys che ha partecipato, fin’ora in ruoli secondari, a quasi tutti i film del suo vecchio amico e coetaneo Aki Kaurismäki.
Siamo perciò di fronte ad un film abbastanza piacevole, ma con troppe pecche, la cui visione raccomando solo ai kaurismakiani di stretta osservanza.
Marina Pesavento
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.