Commento appassionato del thriller spagnolo vincitore di 4 Premi Goya, al cinema dal 30 marzo.
Madrid, 2007. Una banda di rapinatori assalta una gioielleria. Il proprietario si oppone e uno dei banditi gli spara, poi si accanisce contro una giovane commessa, massacrandole il volto mentre è già a terra. Le auto della polizia arrivano immediatamente e tutti si dileguano a piedi. L’autista è l’unico ad essere inseguito e catturato; per quanto la sua partecipazione sia stata marginale viene condannato a 8 anni, perché si è rifiutato di fare i nomi dei complici.
Oggi. José è un uomo tranquillo e silenzioso che trascorre molto del suo tempo nel bar di periferia di cui tiene la contabilità, giocando a carte con il proprietario Juanjo e con i suoi amici e ascoltando le loro chiacchiere. E’ diverso da loro, ma alla lunga tutti hanno smesso di farsi domande sulla presenza di quel borghese dei quartieri alti nel loro rione proletario. Un sospetto ce l’avrebbero: sembra piacergli molto Ana, la bella sorella di Juanjo, che lavora nel bar come cameriera da quando il marito è finito in prigione per aver fatto l’autista in una rapina. Entrambi soffrono d’insonnia e prendono l’abitudine di parlarsi via Internet durante la notte; lui la corteggia con discrezione, lei sembra rasserenata dal loro rapporto. La tranquillità finisce quando Curro, scontata la pena, viene rilasciato.
Quel tempo passato in carcere lo ha segnato: non era un vero criminale, solo un piccolo balordo sviato, e quegli 8 anni lo hanno molto indurito. Sognava quel ritorno, voleva ricominciare tutto da capo, eppure è ormai incapace di pazienza e gentilezza; la sua rabbia monta ancora di più quando si rende conto che Ana e il loro figlioletto, concepito durante una visita coniugale in carcere, hanno paura di lui. Dopo aver ascoltato il racconto dell’ennesimo violento litigio, José offre ad Ana le chiavi della sua casa di campagna: potrà passarci qualche giorno col bambino, a riposare in attesa di far calmare le acque, e a riflettere su che fare della sua vita.
Attenzione: da qui in poi potreste leggere alcune rivelazioni sulla trama (nulla comunque che non si possa dedurre dal trailer).
Scopo apparente di José è tenere protetti madre e figlio, in realtà approfitta della situazione per rapire Curro e costringerlo a rivelargli l’identità dei suoi complici: il gioielliere da 8 anni in coma irreversibile e la commessa uccisa erano infatti suo padre e la sua fidanzata. José minaccia Curro, gli fa credere di aver sequestrato Ana e il bambino: deve parlare, se vuole rivederli vivi. Iniziano così insieme un viaggio alla ricerca dei vecchi complici che si trasforma in un viaggio all’inferno.
TARDE PARA LA IRA potrebbe suonare in traduzione più o meno come “La vendetta è un piatto che si serve freddo” (titolo di un film del 1971 del compianto Pasquale Squitieri). E freddo, minuziosamente studiato per anni a tavolino, è il piano di vendetta dell’uomo qualunque José e da lui perpetrato con inaudita ferocia.
Dopo la sua presentazione all’ultimo Festival di Venezia mi aveva molto colpito un commento nella recensione su The Hollywood Reporter: “Questo film tratta di diverse forme di rabbia. Quasi tutti i personaggi maschili sembrano sconvolti da qualcosa, trasformando il thriller in uno studio sul machismo nella sua forma più pericolosa”. In José è una rabbia ancora più potente perché interiorizzata. La violenza, per quanto prevista o per lo meno temuta, esplode ogni volta all’improvviso, scatta e va a segno, rappresentata come in molti film asiatici con agghiacciante realismo, senza tutti quei preamboli e spiegazioni che in molti thriller americani finiscono per rompere il ritmo e appesantire la trama.
Questo film segue tutte le convenzioni del tradizionale revenge-movie, ma con un inusuale e sempre più forte crescendo di tensione. Parte lentamente, con Ana e José chiaramente infelici e turbati, che dall’unione delle loro afflizioni sembrano trovare un barlume di speranza in un futuro migliore. C’è un primo cambiamento di tempo al ritorno di Curro, e poi c’è la fuga in campagna e da allora parte la contrapposizione. Da una parte c’è Ana, in un’oasi di pace col suo bimbo, del tutto ignara di quello che sta succedendo a Curro e José.
Dall’altra il piccolo criminale, macho aggressivo e strafottente, si rivela per quello che probabilmente è sempre stato: un uomo modesto, desideroso solo di normalità, che stava sinceramente mettendocela tutta per riconquistare la fiducia della sua donna. Forse per la prima volta si sente davvero un padre di famiglia, responsabile del destino di coloro che più ama.
E c’è il mite contabile divenuto giudice e boia, implacabile nel suo desiderio di vendetta, incredibilmente astuto e meticoloso nel programmare la punizione di chi l’ha così tragicamente offeso; che per portare a termine la sua ossessiva missione non si fa scrupolo di violare ogni regola di umana pietà. E dopo quei 2 giorni di sangue anche della sua stessa sorte pare che non gli importi.
Raúl Arévalo è un 38enne bravo attore spagnolo (in Italia l’abbiamo visto in LA ISLA MINIMA, era il poliziotto comunista) al suo debutto nella regia. E’ anche coautore della sceneggiatura – insieme con l’amico David Pulido, di professione psicologo – e ha impiegato 8 anni a portare a termine il suo progetto. Voleva un cast ben preciso, girare in 16 mm, molto più costoso che in digitale, e soprattutto non voleva cambiare alcuni aspetti della storia: non gli interessava renderla più “digeribile”. Finalmente nel 2013 ha incontrato la produttrice Beatriz Bodegas, che ha creduto così tanto nel progetto da accendere un mutuo su casa sua per raggiungere la cifra necessaria. Con il ridicolo budget di 1.200.000 euro ha dato vita ad un thriller appassionante, credibile e coinvolgente, giustamente premiato da pubblico e critica in Spagna e in molti Festival all’estero.
Merito anche dell’eccellente cast: Antonio de la Torre, insieme a cui Arévalo ha girato da attore ben 7 film, dà a José la necessaria disperazione e inaspettata ferocia. Luis Callejo ci mostra con maestria l’evoluzione di Curro da orgoglioso ex-galeotto a stupefatto testimone di crudeltà non sue, ma di cui si sente responsabile e per cui prova rimorso. La bella Ruth Díaz dà ad Ana fragilità e fierezza. E infine Manolo Solo è Triana, uno degli ex rapinatori: appare in un’unica scena di non più di 10 minuti che è una vera lezione di recitazione. Ad ennesima dimostrazione che, come diceva Stanislavskij, non esistono piccoli o grandi ruoli, esistono solo piccoli o grandi attori.
Marina Pesavento
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.