Recensione del film Return to Montauk di Volker Schlöndorff, in anteprima alla Berlinale 2017.
“Ci sono due tipi di rimpianti, quello per le cose che si sono fatte e quello per ciò che non si è compiuto”. Max fissa la telecamera, parla di suo padre, di filosofia e della sua vita. Non sappiamo dove siamo perché Max ci tiene sulla corda e le sue parole hanno una eco potente. Poi, la telecamera si allontana e ci aiuta a capire. Siamo a New York, alla presentazione di un libro, quello di Max, scrittore di stanza a Berlino che dopo molti anni è appena tornato nella Grande Mela. La moglie è al suo fianco, l’assistente lo protegge, gli invitati lo osannano.
Un incontro fortuito, con un amico di vecchia data, ci fa intuire che nell’aria aleggino frasi non dette e pensieri nascosti. Il mistero è presto svelato: il segreto di Max si chiama Rebecca. Rebecca è l’amore di gioventù, il momento sfuggito di mano, l’occasione perduta che lacera il cuore. È il vero protagonista del suo romanzo e il motivo di quel ritorno a New York. Un oscuro oggetto del desiderio che ancora oggi è vivo e lo spinge a cercare la donna senza curarsi delle conseguenze. Quelle conseguenze che presto dovrà affrontare perché il tempo non sempre sana le ferite e sicuramente non si può riavvolgere.
Return to Montauk, il film portato in Concorso a Berlino da Volker Schlöndorff, s’ispira a Montauk di Max Frisch, scrittore svizzero e amico del regista. Nonostante il testo originale non si prestasse ad un adattamento cinematografico, con l’aiuto di Colm Tóibín (Brooklyn), è avvenuto il miracolo. Il regista ha confezionato una pellicola con una identità propria, in cui confluiscono elementi autobiografici sia di Tóibín sia suoi, e affida a Stellan Skarsgård (Nymphomaniac 1 e 2) e Nina Hoss (Barbara) il compito di rendere la storia reale, tangibile.
L’opera si presenta come un dramma intimo, non urlato, doloroso. Il racconto non giudica e non spreca parole, mostra il passato che non riesce a rivivere, l’alchimia svanita, il sentimento incrinato dagli anni. La passione langue, la sofferenza di aver commesso un errore troppo grande prende il sopravvento. Lo scrittore non è riuscito ad esorcizzare il suo demone. E l’ultima speranza è perduta. Ora c’è il vuoto.
Return to Montauk vuole dare voce alle nostre anime, alle nostre paure, ai rimpianti che con sfumature differenti tutti abbiamo nel nostro vissuto. Purtroppo però non riesce a toccarci nel profondo. Il rimpianto di Max non pesa abbastanza, non preme con vigore sul nostro petto. Il lungometraggio, infatti, si apre come un thriller, non tesissimo ma che ci tiene sulla corta, si tramuta in un silenzioso e quieto dramma, dall’insolita luminosità che contribuisce a rendere tutto più greve, prima di scivolare nella soap d’autore. Una virata improvvisa che mortifica il racconto, il cast e Frisch, e che conduce ad un epilogo stonato in cui, prima del calar del sipario, viene messa ulteriore inutile carne al fuoco.
Max è oramai lontano. I suoi sentimenti non possono essere i nostri. Peccato, l’incipit era intrigante, uno dei migliori.
Vissia Menza
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”