Nella lunga e straordinaria carriera di Martin Scorsese, l’ossessione per la fede e quel peso specifico che plasma e caratterizza sempre e comunque lo spirito umano, pur tra mille terrene contraddizioni, trova da sempre metaforica corrispondenza in ogni sua opera cinematografica come tra le pieghe di vivo folklore di Mean Streets, nel rigore documentaristico di Kundun o nel tormentato figlio di Dio e degli uomini in L’Ultima Tentazione di Cristo. Con Silence, Scorsese non solo prosegue l’intrepido e travagliato viaggio intorno all’intricato e lacerante rapporto tra l’uomo e l’Onnipotente ma conclude un progetto cinematografico inseguito per oltre un ventennio e portato avanti con ostinata caparbietà.
Nel 1988 il regista di Toro Scatenato scopre Chinmoku (Silence), il romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō e, affascinato dalla sua potenza narrativa, decide di adattarlo per il grande schermo.
Silence si ispira ad un fatto realmente accaduto, la storia del gesuita Cristóvão Ferreira (Liam Neeson) che, dopo anni in missione evangelica nel Giappone del XVII secolo, rinnegò la propria fede convertendosi al buddismo. Due giovani missionari portoghesi, Padre Sebastian Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Francisco Garupe (Adam Driver), allievi di Ferreira, intrapresero un lungo viaggio iniziatico in terra nipponica alla ricerca del loro mentore e della sua sconcertante verità, in un luogo profondamente ostile fino alla disumana spietatezza verso gli uomini di chiesa e i Kakase Kirishitan, i cristiani nascosti.
Attraverso la dolorosa esperienza di Padre Sebastian, che ha tutte le stigmate del calvario, Scorsese incide sulla pelle dello spettatore gravose stoccate dialettiche e l’improba sfida tra Fede e Parola, tra la visione gloriosa di un popolo immolato al più violento dei sacrifici e la reale pietà cristiana fatta di dubbi e feroci rinunce. I paesaggi nebulosi di un Giappone d’acqua e di nebbia, la cui natura rigogliosa è complice e allo stesso tempo impassibile spettatrice del millenario travaglio morale dell’uomo, donano il ritmo cadenzato ad un lento e snervante gioco di scacchi tra due dottrine che sembrano tendere al medesimo desiderio di armonia celeste ma non si incontrano mai, sorde ad ogni reciproco ascolto ed inconciliabili per un insensato e distorto senso di superiorità e sterilità cerebrale. L’implicito errore risiede proprio nell’uso del linguaggio come vuoto simbolo e come affilata arma argomentativa: la religione buddista, attraverso i solenni ed estenuanti colloqui dell’Inquisitore (Issei Ogata), estorce l’abiura, con sadica violenza, dando più importanza al suono di una falsa rinuncia al cristianesimo che a una vera e propria conversione mentre il vacillante Padre Sebastian rischia di perdere il senno rispecchiandosi caparbiamente nell’immagine del Signore e perpetuando così il masochistico copione del martire pronto, paradossalmente, a salvare le anime dei fedeli condannandoli a una morte lenta e dolorosa nel nome di un Dio che, proprio per amore dell’uomo, si è fatto carne ed è morto per salvarli. Ed è qui che il silenzio del divino si fa lancinante come l’inferno in terra ma arriveranno le risposte sia dal ritrovato mentore, che insegnerà che la verità sta nella rinuncia dei principi per un più alto e degno ideale, sia dal paradossale legame con il folle Kichijiro (Yosuke Kubozuka) singolare figura del Giuda che tradisce per debolezza congenita ma è il solo, ogni volta, a chiedere il perdono e a mantenere viva la memoria dell’Altissimo che redime ed è presente anche nel silenzio più assordante.
Nonostante la poderosa e a tratti sfiancante dilatazione temporale (lunga ben 161 minuti), la scelta spiazzante della sola lingua inglese per tutti i componenti del racconto e una scansione narrativa che sembra risentire degli anni di attesa, la mastodontica opera visiva attecchisce spontaneamente nei cuori degli spettatori per la meravigliosa ambientazione naturale, la superba ricostruzione di Dante Ferretti degli usi e costumi giapponesi e un cast eccezionale in cui i pur efficaci e motivati Garfield e Driver vengono superati in bravura dallo straordinario e compatto gruppo di attori giapponesi, su tutti il perfido e suadente interprete e l’anziano e scaltro Inquisitore Issei Ogata, visto ne Il sole di Aleksandr Sokurov.
Silence, nei cinema dal 12 gennaio, è il racconto intimo e senza requie di una vita vissuta alla ricerca del suo più grande e pieno significato, e il ritorno dietro la macchina da presa di uno dei più grandi registi di tutta la storia del cinema.
God bless Martin Scorsese.
Silvia Levanti