Dalla Francia arriva nelle sale italiane, per la distribuzione di Istituto Luce-Cinecittà, un nuovo capitolo del conflitto in Afghanistan raccontato dall’esordiente Yannick Saillet.
Passo Falso (Piégé) è l’opera prima del filmmaker francese che debutta alla regia di un lungometraggio realizzando un thriller serrato ed intenso, all’interno del quale la guerra assume una forma quasi astratta, con pochissimi riferimenti agli scontri odierni e passati.
Un gruppo di soldati francesi comandati dal sergente Denis Quillard (Pascal Elbè) è vittima di un’imboscata da parte di un nemico ignoto. Quillard sarà l’unico superstite della strage ma il destino gli volterà le spalle, abbandonandolo alla mercé del tempo e di un nemico ben più crudele: il suo piede andrà a posarsi su una vecchia mina russa a doppio scoppio della seconda guerra mondiale. Una bomba a orologeria. Solo e senza nessuno a cui chiedere aiuto, l’uomo non avrà scampo e dovrà attendere i soccorsi dei compagni che, a causa delle comunicazioni fuori uso, tardano ad arrivare.
La peculiarità della pellicola, che emerge sin dalle immagini iniziali, è legata alla totale assenza di riferimenti che vanno a comporre il disegno narrativo: l’indicazione del luogo preciso in cui è dislocata la vicenda non è rivelato chiaramente – benché si tratti di Afghanistan – così come la carenza di informazioni sui personaggi in gioco e sulla misteriosa identità delle forze rivali.
L’intento di fornire pochi dettagli funge, con buona probabilità, soltanto da cornice a quello che accade in seguito al protagonista. Una sorte crudele ha voluto che fosse proprio l’ufficiale Denis a calpestare una morte “certa”, un caso analogo a quanto avvenuto al soldato bosniaco Tzera in No Man’s Land (2001) di Danis Tanović, costretto a giacere su un ordigno balzante che avrebbe fatto saltare in aria lui e i suoi compagni.
C’è dunque qualcosa di peggiore dell’eterna dipartita: la sofferenza e la paura di morire, aggrappandosi a tutto ciò che ognuno ha di più caro. Il deserto, spazio agorafobico e al tempo stesso ermetico, si trasforma in un bunker a cielo aperto dove il rumore del silenzio regna sovrano e imprigiona il sopravvissuto in una morsa di insicurezza, disperazione e fragilità.
La guerra, così come la vita, è un rischio perenne e continuo che segna inevitabilmente gli individui coinvolti. Non importa chi sia il nemico o il diretto avversario: la contesa bellica demolisce le speranze, rendendo l’uomo inerme, psicologicamente impotente e talvolta spietato, cinico e senza scrupoli. Filosofia che ricalca sotto certi aspetti quella di Stanley Kubrick in Paura e Desiderio (1953) e Orizzonti di Gloria (1957) in cui veniva analizzata la guerra in quanto tale, in modo semplice e diretto, abbattendo ogni dietrologia. In quel caso, i protagonisti avevano alla spalle una storia solida dagli sviluppi mirati e precisi, condizione che sembra non sostenere l’idea di Saillet, il quale costruisce un dramma ‘da camera’ (kammerspielfilm) dal forte impatto visivo, enfatizzato da una fotografia ruvida e polarizzante e da un’ambientazione tipicamente western.
Nonostante l’ipotesi di assistere a “La classica giornata sfortunata di un soldato” non sia poi così tanto utopica, l’autore inscena un survival movie di grande potenza espressiva che mescola azione e trepidazione, sullo sfondo del quadro geopolitico attuale, con un ritmo compresso e un finale spiazzante (che per ovvie ragioni non vi sveleremo) che potrebbe sorprendere in positivo lo spettatore. Audace.
Alberto Vella & Andrea Rurali
Recensione pubblicata anche su CineAvatar.it