Il regista Alex Gibney - Photo: courtesy of Berlinale

Alex Gibney, il regista di Zero Days – Photo: courtesy of Berlinale

Alex Gibney è un documentarista americano, tra i più prolifici e seguiti dal grande pubblico. I suoi lavori non sono destinatati ai tanti, anonimi, canali TV che ci cullano ogni giorno tra le braccia di Morfeo. I temi trattati nei suoi film sono controversi, difficili, di portata mondiale, ben si prestano a conquistare l’audience che affolla le sale, e talvolta arrivano anche all’attenzione dell’Academy, come nel caso di Taxi to the Dark Side (dedicato ai metodi di interrogatorio adottati dopo l’11 settembre in Iraq, Afghanistan e a Guantanamo) premiato con un Oscar® nel 2008.

Dopo Going Clear: Scientology e la Prigione della FedeGibney oggi cambia strada e si addentra in un nuovo territorio spinosissimo: la guerra virtuale, quella combattuta dalle varie potenze militari utilizzando il cyberspazio come campo di battaglia. Nessun prigioniero o caduto, massima efficacia, totale riserbo (fintanto che non sia utile sfruttare i mass-media e intimorire il pubblico). Un conflitto che si combatte da casa propria, stando comodamente in poltrona, davanti ad un monitor, con una tastiera in mano, inserendo qualche codice le cui conseguenze, però, sono mastodontiche.

Prendiamo ad esempio Stuxnet, il virus informatico che il governo americano, con il supporto di quello israeliano, ha fatto penetrare all’insaputa di chiunque nella centrale nucleare iraniana di Natanz, al fine di manometterne il funzionamento e impedire ad una nazione nemica di trasformarsi in una minaccia per l’Occidente. Questa operazione segretissima, a cui neppure i più infallibili programmatori sono venuti a capo, è rimasta nell’ombra per anni, ha prodotto danni reali, ha sconvolto vite, ha avuto ripercussioni importanti sul piano delle relazioni internazionali ed ha condizionato le persone comuni. Il potere distruttivo di questo virus è da brividi, scoprirlo ci fa sentire piccoli e vulnerabili. Ma nessuno di noi pare ricordarsene.

Zero Days - Code from Stuxnet Virus - Photo: courtesy of Berlinale

Code from Stuxnet Virus – Photo: courtesy of Berlinale

Ed è proprio la storia della creazione ed emersione di Stuxnet a essere oggetto di Zero Days, il documentario che il cineasta ha presentato in concorso alla 66° Berlinale. Appare subito chiaro che lo scopo non fosse tratteggiare l’ennesimo “uomo nero”, fomentare il terrore o scuotere l’opinione pubblica con un‘opera di denuncia, bensì ottenere risposte e stimolare il nostro spirito critico. Ed è l’autore stesso a confermarci la speranza che gli intervistati si aprissero, dato che la storia era di dominio pubblico, tutto questo prima di accorgersi che l’attesa di scoprire i fatti era la vera anima del lungometraggio. Alla fine, nonostante il timore di non aver nulla da raccontare, ha ottenuto più di un documentario e/o di un film: il suo è un intenso docu-thriller.

Vediamo immagini di repertorio, sentiamo il racconto di persone che ricoprivano cariche pubbliche cruciali e di esperti che lavoravano per Symantec, e altre società che prevengono quotidianamente i maggiori rischi informatici, riusciamo a seguire i discorsi nonostante i tecnicismi, ma è lo stupore a occuparci la mente. Com’è possibile che non ce ne siamo accorti? Perché, siamo onesti, prima di oggi quanti di noi si ricordavano di Stuxnet? E quanti erano consapevoli delle potenziali conseguenze di un worm? Nessuno.

Ed è in questo che Zero Days vince: è interessante, non morboso, espone i fatti in modo chiaro e intrigante, è carico di suspense, è alla portata di chiunque ed è – soprattutto – disarmante oltre ogni previsione.

 Vissia Menza