“Cercate ciò che di speciale ha ogni individuo e concentratevi su quello.”
Dopo Craig Schwartz, Joel Barish e Caden Cotard, è la volta di Micheal Stone, esperto del customer-care aziendale (il suo best-seller “Come Posso Aiutarti ad Aiutarli?” è in cima alle classifiche) e nuovo portavoce dell’amara posizione di uno sceneggiatore che è sempre più garante d’inedita qualità visiva e comunicativa.
Charlie Kaufman, premio Oscar per lo script di Se Mi Lasci Ti Cancello e reduce dal suo spiazzante e ambizioso esordio alla regia con Synecdoche, New York, unisce le forze con l’amico e collega Duke Johnson (Marrying God) e debutta nel mondo dell’animazione in stop-motion con una storia che, pur riproponendo tutti gli elementi cardine della sua corrente di pensiero, li comprime in un angusto e grigio arco temporale, spaziale e narrativo. Doppiato nella versione originale dall’inglese David Thewlis (Macbeth, La Teoria del Tutto), il disilluso Sig. Stone deve trascorrere una notte nell’Hotel Fregoli di Cincinnati, per poi tenere una conferenza di presentazione del suo libro il mattino seguente. A questo punto, ci ritroveremo a seguire passo dopo passo quell’unica parentesi di poche ore nell’altrimenti anonima vita di un uomo di mezza età e conosceremo nel profondo il suo personale dramma esistenziale.
Il nome dell’albergo non è stato scelto casualmente: l’intento è quello di omaggiare il grande attore e trasformista italiano Leopoldo Fregoli e l’intera opera di Kaufman e Johnson si fonda sulla drammatizzazione della nota sindrome che porta il suo nome. Come chi è affetto da questa malattia manifesta una rara forma di paranoia e delirio dettata dalla convinzione di essere perseguitato da una specifica persona che, di volta in volta, assume differenti sembianze, il nostro protagonista è vittima del sua stessa radicata ottica sul mondo, una prospettiva che non ha il coraggio di rivelare ad anima viva: chiunque lo circondi presenta, ai suoi occhi, lo stesso identico volto e si esprime con la medesima voce maschile e algida (quella di Tom Noonan), indipendentemente da sesso ed età del soggetto. Di conseguenza, Stone rifiuta l’omologazione ma, non volendo scendere a patti con solitudine e sofferenza, questo perenne conflitto interiore lo pone in bilico tra arroganza e autocommiserazione.
La routine si spezza quando una soave voce femminile (o che ci suona soave perché è l’unica che ci è concesso udire) giunge alle orecchie di Michael che, da quel momento, comincia a intravedere un ponte con la propria felicità passata. La musicalità di quelle parole appartiene a Lisa Hesselman (Jennifer Jason Leigh), magnetica anomalia la cui misteriosa esistenza porta con sé la possibilità di un cambio di rotta concreto, seppur disseminato di ostacoli. L’esercito di manichini standardizzati si pone sul loro cammino e la scelta di affidarsi alla tecnica della stop-motion raggiunge ora un significato e una funzionalità più profondi, anche e soprattutto attraverso l’elemento dell’incubo a occhi aperti e in occasione di una folle sequenza onirica che più richiama il cinema di Kaufman per definizione.
Quest’ultimo sembra anche suggerire l’idea che sia lo stesso Michael Stone a dare forma e vita alle proprie angosce. Se la sua personale concezione di felicità lo porta a etichettare il mondo come banale e mediocre, dal momento che non sembra rientrare in un preciso ideale di perfezione, allora la vera identità del suo antagonista per eccellenza è presto svelata. In Anomalisa non manca certo l’ironia ma questa si fonda quasi sempre sulla triste accettazione di un processo di uniformità al quale nessuno sembra essere immune; eppure, è nella soggettività che Kaufman ripone la possibilità di un’esistenza priva di rimpianti, sempre che si rinunci alla consapevolezza del proprio ruolo di comparsa nella grande farsa della vita.
Giulio Burini
Recensione pubblicata anche su CineAvatar.it