Continuiamo a parlare di Concorso Internazionale e passiamo dalle alpi svizzere alla Cina anni ’90 con il film “Shan he gu ren” (Mountains may depart) di JIA Zhang-Ke. Un racconto in tre parti. La prima ci fa tornare indietro agli anni ’90 sulle note dei Pet Shop Boys e ci presenta i protagonisti: tre compagni di scuola, tre amici, due giovanotti e una bella ragazza. La seconda si svolge negli anni 2000, i tre sono oramai adulti e, come prevedibile, i due uomini si contendono la bella Tao. La spunterà il solito fortunato, ossia il ricco, belloccio e brillante. La terza e ultima parte è nel futuro, nel 2025, nella lontana Australia, dove conosceremo Dollar, il figlio di Tao.

Il film di JIA Zhang-Ke, nasce da una buona idea ed è coraggioso: è politicamente schierato, è un chiaro j’accuse, mostra la trasformazione della Cina da baluardo del socialismo a Paese ricco, ogni giorno più capitalista, con la gente che si perde, che soffre, che smania. Il regista prova a scattare un’istantanea degli ultimi trent’anni attraverso gli occhi di Tao e i tre amici, soprattutto la protagonista, sono il nostro Virgilio durante questo viaggio.

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Photo: courtesy of FDC

Non a tutti potrebbe suonare familiare il nome JIA Zhang-Ke, ma stiamo parlando di colui che ha diretto “A Touch of Sin” che proprio qui a Cannes ebbe fortuna nel 2013. L’autore ama attingere dalla realtà, usa dividere le proprie storie, si sente in dovere di mostrare la Cina per quello che è, con tutte le sue incongruenze e le intime sofferenze. A differenza dell’opera precedente, però, “Mountains may depart” (titolo che in originale corrisponde a un detto sull’amicizia,) è un film sofferente. Non nel senso che i fotogrammi trabocchino dramma strappalacrime, bensì a causa del ritmo che incespica, del registro che cambia, della narrazione che con lo scorrere dei minuti diviene bizzarra, da scelte che allontanano il film dalla nostra sensibilità.

Cosa vedrete? Una donna divisa tra due uomini, il fato avverso e una serie interminabile di errori, il tutto con dialoghi essenziali e attori che reagiscono al rallentatore, trasformandosi inevitabilmente nella parodia di sé stessi. La mia pazienza è stata quindi messa alla prova da questo stile distante anni luce da ciò che mi diverte, mi fa riflettere o, perché no, arrabbiare. Qui, mi sono ritrovata inizialmente ad attendere fiduciosa che la pellicola decollasse, poi a stringere i denti, aggrappandomi all’ultima flebile speranza, e solo alla fine a gettare la spugna arrendendomi all’evidenza: il film che avrebbe dovuto dimostrare la maturità del regista è disomogeneo e a tratti noioso, troppo debole per ottenere la Palmarès.

Ancora una volta, non bastano le migliori intenzioni e una buona idea per battere la concorrenza.

Vissia Menza