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Alla Mostra Concorso del 33° Bergamo film Meeting c’era anche il secondo lungometraggio di finzione dell’affermato documentarista Murat Düzgünoğlu. Protagonista della storia è Bahadir, un trentacinquenne aspirante regista, estimatore di Andrej Tarkovskij che, per sopravvivere, gira film TV ispirati alle canzoni folk turche (!). Siamo a Istanbul, nel tempi attuali, globalizzati, in cui l’unica certezza è che le frustrazioni e l’irrealizzazione regnino sovrane.

Bahadir è allo sbando, vive come gli studenti fuorisede nonostante sia nella trentina: è talmente spiantato da dover condivide la casa con dei coinquilini sgangherati. Anche la sua relazione sentimentale ha alti e bassi assurdi e non evolve nel segno della costruzione di una famiglia o, per lo meno, di un futuro sicuro. L’uomo non ha rapporti sociali strutturati e tutto è stonato agli occhi di genitori e nonni. I sogni c’erano e ci sono ancora ma rimangono nel cassetto: la voglia di mettersi in gioco ogni giorno si affievolisce a favore di un compromesso che annienta l’ego. Il protagonista vede la propria esistenza, le aspirazioni e soprattutto il tempo, sfuggirgli di mano e subisce, asseconda l’onda.

Photo: courtesy of 33° Bergamo Film Meeting

Photo: courtesy of 33° Bergamo Film Meeting

Ci viene voglia di schiaffeggiare (perlomeno verbalmente) il nostro antieroe, come ci è capitato con tanti amici negli ultimi anni, e da questo punto di vista il cineasta turco si dimostra bravo. Düzgünoğlu ci fa dimenticare il tempo, i luoghi e i motivi di fondo. Il suo è un racconto globale che evidenzia il lato oscuro del nuovo millennio. E lo stile scelto è quello che lo rende intrigante agli occhi del popolo cinefilo che assiepa i festival (inter)nazionali. Il film presenta, infatti, tutte le caratteristiche di quel cinema tipico “da festival”: l’incedere è lento, la sceneggiatura è di poche parole e permeata di un sarcasmo in alcuni punti talmente sottile da risultare difficile, troppo nascosto. L’ambiente e i colori sono ton sur ton e l’atmosfera è volutamente colta, tutto ci ricorda che questo lungometraggio non sia destinato alle masse in cerca di roboante evasione il venerdì sera.

Tante sono le peculiarità  che contribuiscono alla bellezza della kermesse bergamasca, una è la mescolanza di generi nell’ottica del mondo che cambia, l’altra è il puntare sul futuro. Le pellicole sono tutte di autori promettenti e rispondono alle più diverse esigenze. Questo è un festival che sceglie opere provenienti da realtà vicine, di artisti spesso giovani (sicuramente nello stare dietro la macchina da presa), con uno stile ben definito. Ed è così che, in questi giorni, abbiamo riso, siamo sobbalzati, abbiamo tifato e non ci è mai venuta l’irrefrenabile voglia di essere altrove.

“Why can’t I be Tarkovski?” è un lavoro equilibrato e sobrio. Sono sicura ne sentirete parlare.

Vissia Menza