Cèlestine è giovane, forte, ben educata e determinata. È una domestica di Parigi, ha un insolito alto livello, conosce le buone maniere e, all’occorrenza, la lingua tagliente. Troppo erudita per molti, troppo smaliziata per alcuni, un impagabile aiuto per altri. La ragazza è una delle poche privilegiate che, grazie alla sua cultura, professionalità, ai modi aggraziati e alla bella presenza, può permettersi di rifiutare le offerte di lavoro.

© Carole Béthuel

© Carole Béthuel

Siamo nella Francia a cavallo tra il 1800 e il 1900, nella quieta provincia, seguiamo la giovane verso un nuovo impiego, determinata a non farsi sottomettere da datori di lavoro capricciosi e/o pretenziosi. Nella tenuta della famiglia Lanlaire, invece, si ritrova ad affrontare un padrone lascivo con una moglie petulante e snervante, e ad essere circondata da una servitù introversa e dall’aria sinistra. Dall’esterno temiamo che Celestine sia finita dalla padella nella brace ed è sufficiente far scorrere qualche inquadratura per comprendere che i nostri timori fossero fondati.

“Diary of a Chambermaid” è il nuovo film diretto da Benoit Jacquot ed è la terza trasposizione su grande schermo dell’omonimo libro di Octave Mirbeau. I precedenti sono illustri (Renoir e Buñuel), ma Jacquot non si è lasciato intimorire. La sua è una visione più fedele al testo, al contempo più dinamica, in cui ciascuno può trovare un appiglio, un richiamo, al ciò che sta vivendo o, per lo meno, questo è l’intento che ha spinto il regista a portare la sua pellicola a Berlino.

Di fatto, abbiamo assistito a un film silente, con dialoghi parchi, criptici, poco utili. Il gioco di sguardi, l’attrazione-repulsione tra i protagonisti s’intuisce più dalla situazione nel suo complesso che dalla gestualità degli attori. Tutto è senz’anima nonostante un cast di prima classe che vede Léa SEYDOUX e Vincent LINDON rispettivamente nei panni di Cèlestine e Joseph, l’uomo che le offrirà un futuro diverso.

La narrazione si trascina sino a raggiungere il novantacinquesimo minuto. Arrivare ai titoli di coda è stata una prova di coraggio possibile solo perché il festival era ancora alle prime giornate. In questa nuova versione cinematografica mancano performance strabilianti, scenografie mozzafiato e una rilettura graffiante del classico della letteratura. In sala, la noia e il bisbiglio regnavano sovrani e, in un futuro prossimo, toccherà invece al pubblico decretarne il successo o destinarlo definitivamente all’oblio.

Vissia Menza