Sergej Michajlovič Ėjzenštejn era un regista russo. Nato a fine ottocento, durante gli anni ’20 era già sulla cresta dell’onda. Con idee pioneristiche sull’importanza e le modalità di montare un film, ad oggi è considerato uno dei più importanti cineasti del ‘900 e uno dei pochi registi che, in seguito al successo planetario dei suoi “La corazzata Potemkin” e “Ottobre”, venne invitato a Hollywood per girare un lungometraggio. Nonostante fosse il 1930 e Stalin vigilasse sul suo Paese con attenzione, l’uomo attraversò l’Atlantico, arrivò in California prima e in Messico dopo, determinato a girare un documentario dall’eloquente titolo “Que Viva Mexico”.

Sulla permanenza messicana del regista ci sono filmati, documenti e si sono udite molte storie. Alle emozioni, agli incredibili giorni di permanenza in quella terra, Peter Greenaway ha deciso di dedicare il suo nuovo lavoro. Una storia sul geniale cineasta nato nella gelida Russia che, una volta scoperto il caldo Messico, è rimasto affascinato dallo stile di vita, dalle abitudini, dai culti, da carnalità e passionalità. Una figura talmente bizzarra che non stupisce Greenaway l’abbia eletta a protagonista indiscussa della sua nuova fatica. Non un documentario, quindi, ma una visione personale e intima di quello che accadde, delle emozioni provate, di ciò che affascinò l’artista che arrivava da molto lontano.

©Berilnale

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Greenaway confeziona un’opera in perfetto stile Greenaway, con i caratteri che da sempre lo contraddistinguono, con quei pregi e difetti attraverso cui negli anni si è fatto amare e talvolta odiare. La luce, il gioco bianconero/colore, la recitazione sopra le righe, la teatralità e le meravigliose coreografie, con fotografia e musiche sontuose, sono i tasselli che compongono (e rendono unica) una pellicola in cui la magnificenza e il bello si trovano in ogni dove. I palazzi sono da favola, le sculture respirano e l’arte è pregiata. C’è tutto, compresi quei corpi maschili sempre più in primo piano man mano che il gran finale si avvicina. Sono molti, spesso statuari, talvolta unti, nudi, e non si risparmiano, spesso fanno sesso (tanto, forse troppo) o sono intenti in danze di vita e di morte. La pellicola è visivamente inebriante, la storia è divertente e incredibile, la narrazione è bizzarra.

“Eisenstein in Guanajuato” è il punto di arrivo di una carriera costellata di molte immagini cariche di provocazioni e emozioni, e ha quell’eleganza richiesta da festival prestigiosi e ricchi di avanguardie come la Berlinale.

Vissia Menza