Recensione del film KNIGHT OF CUPS in concorso alla Berlinale 2015

Sono trascorse più di ventiquattro ore dalla proiezione di Knight of Cups. È giunto il momento di prendere coraggio e commentare il nuovo lavoro di Terrence Malick, autore noto per narrare storie che vanno oltre gli schemi classici del fare cinema.

Non sono mai riuscita a entrare in sintonia con il pensiero di questo signore, non sono mai riuscita a vedere con i suoi occhi, anzi, in alcuni casi ciò che per molti era poesia, per me era una nenia infinita e straziante. Però, chi mi conosce sa che sono sempre pronta a ricredermi. Lo scorso anno era capitato con Wes Anderson, che ho totalmente riabilitato dopo il meraviglioso The Grand Budapest Hotel e in questo 2015 speravo fosse la volta di Malick. Così non è stato.

Si dice che l’essere umano sia il punto più alto dell’evoluzione della specie e che tutto si modifichi in continuazione, ma questo regista pare essere impermeabile a ogni regola, anche a quelle su cui tanto filosofeggia da anni: Knight of Cups è esattamente come ve lo aspettate.

Photo: Melinda Sue Gordon © Dogwood Pictures

Photo: Melinda Sue Gordon © Dogwood Pictures

Veniamo accolti da un uomo – io narrante solo e pensieroso che si trasforma in novello Virgilio per mostrarci la sua vita costellata di successi, conquiste, donne, varie dissolutezze, e con un lato affettivo in corto circuito. I dialoghi sono pochi, essenziali e da decrittare. La natura e il mistero del creato sono onnipresenti. L’acqua – fonte di vita – domina la scena. Gli immancabili bambini, simbolo di generazioni a confronto, ci conducono dentro la storia familiare del protagonista. Il tutto è accompagnato da musica feng–shui e immagini a tratti documentaristiche, che sfiorano alternativamente la video-arte e gli spot pubblicitari. Insomma, il cineasta non si è mosso di un millimetro, ha preferito portare all’estremo il suo pensiero, il suo modo di comunicare e, una volta ancora, ha sfoggiato quanto ha appreso dalle letture e gli studi che riempiono il suo tempo libero.

Il risultato è che in alcuni momenti la memoria ci inganna e sovrapponiamo le immagini, confondendone la filmografia. In più di un’occasione, infatti, mi sono trovata disorientata ed ho creduto di essere difronte ad un To the Wonder rimontato, cosa che, una volta ripreso il controllo, ha alimentato la mia insofferenza, già in forte crescita dopo l’ennesimo sussurro e la centesima carezzina tra i vari personaggi semi fluttuanti.

Il punto è: se da un lato non rinuncia a questo modo alternativo di narrare, il regista pare però essere consapevole che per attirare la massa si devono fornire gli strumenti giusti, infatti dissemina ovunque piccoli aiuti e spiegazioni (l’acqua – vita ne è un fastidioso esempio). Quindi, mi domando, perché non trovare un modo più semplice per stabilire una connessione con tutti gli amanti della vita e delle arti? Crede davvero di essere superiore ai Blockbuster? Allora perché al posto di chiamare i tanti grandi attori-caratteristi del mondo anglosassone, farcisce i suoi film-fotocopia di superstar che hanno fatto fortuna grazie al box-office?

Mi dispiace quindi che queste immagini, incorniciate da una fotografia a dir poco sublime, dotate di un taglio inusuale, con dominanza dei colori che amo, non abbiano dato vita a un meraviglioso corto/mediometraggio muto. Così le debolezze e le perdizioni dell’uomo del nuovo millennio sarebbero emerse e, forse, infine avrei udito quella poesia a cui speravo di dedicare una standing ovation.

Vissia Menza

Last update:13.11.2016, inserimento sottotitolo