Alain Resnais di primavere sulle spalle ne ha un bel po’ (all’anagrafe è iscritto dal 1922), ma a Berlino presenta il suo nuovo lavoro che trasuda vita e sperimentazione, un’opera che tutto comunica tranne rassegnazione. Il regista, considerato da molti il padre della nouvelle vague, che nella sua carriera ha rotto tutti gli schemi del cinema (spazio-temporali, narrativi, logistici), abile nell’adattare testi al grande schermo, porta alla Berlinale numero 64 “Life of Riley”, trasposizione della pièce del drammaturgo britannico Alan Ayckbourn.
Ayckbourn è a sua volta noto per mettere in scena i suoi lavori in modo molto creativo, ed è durante uno spettacolo in cui il pubblico era parte integrante della scenografia che Resnais fa la sua conoscenza e decide di adattare le sue opere. Si mormora che di comune accordo i due artisti abbiano deciso che solo a montaggio concluso si sarebbe discusso di paternità del film (che sappiamo l’autore alla fine si è assunto), sta di fatto che l’opera appena vista è divertente, sottile, diversa e… davvero poco convenzionale.
Il racconto ci porta nella cittadina di York, in quattro case con giardino, a conoscere tre coppie. Oggetto delle loro conversazioni (e della curiosità dello spettatore) sarà Riley, il vero protagonista della storia. Colui di cui tutti parlano, l’uomo che da subito scopriamo avere solo pochi mesi davanti a sé, l’affascinante persona che attrae le tre donne e rende sospettosi i relativi compagni, insomma, la classica presenza imponente e carismatica. Quindi, la domanda sorge spontanea: cos’ha di tanto speciale George Riley?
Le donne non riescono a resistere alla sua abilità persuasiva e gli uomini non riescono a competere con lui, soprattutto perché si accompagnano con dame che hanno condiviso il proprio passato con il magnetico uomo. La storia nasce per il palcoscenico e arriva allo schermo mediata da una telecamera e poco altro. Il palco, infatti, manca ma la scenografia è inequivocabilmente poco cinematografica e molto teatrale. Gli attori, per lo più presenze fisse nelle opere di Resnais, entrano ed escono da tendoni in cui sono disegnati sfondi e volumi, e gli spostamenti da una casa all’altra sono dati da veri filmati in esterni.
Il risultato è che la distanza vien mostrata da filmati, gli attori recitano per lo più in primo piano con limitati spostamenti, e i volumi sono dati da colorati disegni. Una prova non semplice per eventuali novelli aspiranti premi Oscar®, superata da un cast oramai abituato ai set del regista francese. La pièce esplora i sentimenti, l’amore, la voglia di sentirsi vivi. E questo è il punto della discordia. Gli anni sulle spalle del regista si fanno sentire: l’ossessione della morte o, se preferite, l’inno alla vita è oramai onnipresente nelle sue pellicole e il cast (anch’esso fisso) recita in modo forzato, quasi caricaturale, non facendosi amare. Il risultato è stato un fuggi fuggi generale e constante dalla sala, segnale inequivocabile del reale apprezzamento da parte del pubblico. Troppo pesante per riempire un cinema, troppo diverso, per i puristi.
Vissia Menza
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”