Un detto asserisce che i migliori se ne vadano sempre per primi, spesso in sordina e senza far troppo parlare di se. Purtroppo i fatti danno spesso ragione alle credenze popolari e anche la signora di cui parliamo oggi, nonostante abbia scelto un modo piuttosto esplosivo per terminare la sua permanenza tra noi, l’ha fatto con dignità e nell’intimità della sua abitazione, senza troppo rumore, sola con i suoi pensieri e dolori, ma lasciando dietro di se un gran vuoto.

Siamo giunti anche all’ultima settimana del mese di novembre e le uscite cinematografiche di questo weekend prevedono due opere legate dall’amore per la propria terra e dalla mafia, anche se i registri adottati sono molto diversi tra loro. È arrivato il momento di parlare di una storia dolorosa per poi concederci letture più leggere e spensierate.

Armida Miserere a molti non suonerà per nulla familiare, a coloro che si avvicinano agli “anta” potrebbe far riaffiorare qualche ricordo di gioventù, a chi invece di primavere ne ha sulle spalle una bella manciata, udire questo nome potrebbe provocare un fremito. Parliamo di una delle prime donne che hanno ricoperto il ruolo non semplice di direttore di carcere e, come se non bastasse, non in un periodo particolarmente tranquillo, bensì durante gli anni dei grandi crimini di mafia, dei maxi processi e degli omicidi eccellenti. Dagli anni 80 alla fine del millennio vi è stato un susseguirsi di sconcertanti perdite e in quel clima ostile, di presunta tranquillità, questa donna è riuscita a trovarsi sempre a dirigere i penitenziari più sotto i riflettori e in fermento del Paese.

La signora Miserere era una persona di polso, con le idee chiare e un’ideale da portare avanti senza indulgere a sconti e concedere favori, e pagò tutto questo molto caro: perse tutto. Dal compagno di vita (l’educatore Umberto Mormile, qui col volto di Filippo Timi) ai cani, sino al giorno in cui venne meno anche la sua voglia di vivere. Accompagnata da un dolore incolmabile e trascinata da una volontà di ferro, fa specie scoprire che nonostante sia stata un personaggio importante della nostra storia recente, ancora una volta, ci sia voluto un regista, qui Marco Simon Puccioni, a rinverdirne il ricordo.

Con Valeria Golino nei panni della protagonista, con note e fascinose scogliere sullo sfondo a fare da contraltare alle mura di cemento degli istituti carcerari, seguiamo la quotidiana sopravvivenza di Armida in una pellicola che mai si trascina, mai diviene piagnona e mai scivola in quel sentiero melò molto da telenovela venezuelana che avrebbe spazzato via il nostro buon umore e turbato la nostra attenzione.

Il film ripercorre i fatti, propone situazioni familiari probabili, si avvale all’occorrenza d’immagini di repertorio ed è supportato da una fotografia che s’incupisce man mano che l’animo della donna si logora. Così, mentre i fotogrammi scorrono, non dovendo tenere a bada le lacrime o la rabbia, abbiamo il tempo di riflettere sull’essere umano retrostante la persona pubblica fino alla consapevolezza della sua perdita e alla promozione dell’opera.

Premiamo la sobria regia, un’attrice affermata che non si è sovrapposta al suo personaggio, e la donna che non c’è più.