© Festival del film Locarno

Quest’anno pare davvero difficile terminare la giornata con somma soddisfazione, altissimo è il tasso di defezioni dalle proiezioni e s’è aperta una vera caccia al film bello, quello con la B maiuscola. Dato che nelle edizioni precedenti le sorprese erano sempre riservate agli esploratori, ossia a coloro che rinunciavano ad un regista blasonato a favore di un esordiente che concorreva nei Cineasti del Presente anche a questo giro abbiamo riposto la nostra fiducia nelle opere prime e seconde e abbiamo esplorato un bel po’ di pellicole tra cui “The Ugly One”.

Il film s’apre con una voce fuori campo, un narratore che più avanti scopriremo essere d’eccezione, è dell’uomo (giapponese) che ci condurrà per i vicoli della città di Beirut. Il degrado è ovunque, il mare è torbido, il racconto evoca una guerra di 27 anni prima. Poi torniamo ai giorni nostri, Lili e Michel si amano, in silenzio mentre un nuovo giorno inizia, siamo sempre a Beirut, ma a questo punto il misterioso narratore ci porta in riva al mare per conoscere una donna che raccoglie lattine e sempre di Lili si tratta.

© Festival del film Locarno

Girato con dovizia (la camera non trema eccessivamente), con in sottofondo le onde del mare che s’infrangono sulla spiaggia, tutto è quieto mentre il racconto prosegue. Piccoli tasselli che pian piano compongono la fotografia di una storia, di una città, di una guerra, di persone con un doloroso passato. Con uno stile notevolmente zen, cerchiamo di capire cosa sia accaduto ai protagonisti e come siano legati al racconto in sottofondo. La cosa richiede un notevole sforzo: dopo 30 minuti brancoliamo ancora nel buio…

In certi momenti sembra una poetica intervista, in altri pretende di essere solo un “artistico” racconto di una guerra sui segni che essa lascia nelle persone, e mi sorge il sospetto che dietro vi sia la volontà di creare un masterpiece. Purtroppo però, i film che lasciano il segno non sono previamente concordati a tavolino e della guerra ne abbiamo abbastanza. Soprattutto perché per tutto il tempo rimaniamo in attesa di capire se siamo difronte a un documentario bizzarro, oppure a una fiction in stile documentaristico o, ancora, se qualcuno si sia davvero messo in testa di impartirci una lezione.

© Festival del film Locarno

Ok, applaudo alla stravaganza, all’attenzione al particolare (la luce, per fare un esempio, asseconda sempre il narratore ed enfatizza le emozioni provate o che vuole provocare) e all’assenza di leva sulla pietas cristiana – il che non è scontato. Però, quando scopro che il narratore è un ex-terrorista giapponese, tale Adachi Masao, e che l’opera è volutamente un incrocio tra realtà e finzione, escamotage per dare spazio e risalto alle emozioni di Adachi, la pellicola inizia oltremodo a infastidirmi.

Ora è chiaro che il film sia l’unione tra vissuto e fiction (anch’essa un traslato delle memorie di Adachi), per diffondere la voce di una persona a lungo privata del passaporto e della libertà. Il problema è che a questo punto la poesia è svanita del tutto, argomento e stile narrativo non incontrano il mio gusto, quindi mi fermo. Troppo giovane il cineasta (nato nel 1973) per filosofeggiare e pretendere di portare avanti la memoria delle guerre di altri e, a me, l’intruglio di vero e falso suona subdolo, quindi meglio dedicarmi alla ricerca del buon umore.