Nel 1975 i mozambicani innalzarono per la prima volta la loro bandiera dopo cinquecento anni di colonizzazione portoghese. Secondo gli ideali rivoluzionari, gli “indesiderabili” dovevano essere tolti dalle strade e le prostitute devono essere rieducate per servire alla nuova causa. In una sola notte nella capitale Maputo centinaia di donne, prostitute o presunte tali, furono rastrellate, arrestate e portate in campi di rieducazione per diventare “donne nuove”. Il regista Licinio Azevedo, incuriosito da alcune foto dell’epoca, volle girare un breve documentario basato su interviste e molti testimoni gli parlarono di una ragazzina arrestata per sbaglio; a quella storia vera si è ispirato per questo film.

Margarida è una contadina adolescente, arrestata perché trovata senza documenti d’identità: ma lei era andata in città con una zia per comprarsi il corredo. Caricate a forza su dei pullman, 500 donne vengono portate nella foresta più profonda del Paese e affidate a Maria João, per 10 anni guerrigliera e ora inquadrata nel nuovo esercito regolare. Quello in cui si trovano non è un vero campo: sono solo poche capanne in mezzo al nulla. Fin dal primo giorno le donne sono davvero costrette a cambiare: dimenticate le loro unghie laccate e gli abiti provocanti, sotto lo stimolo continuo, le urla, le minacce, e spesso le punizioni, della severissima Comandante devono abbattere alberi per costruirsi le baracche, scavare latrine, disboscare la foresta per tracciare una strada fino al paese più vicino. Inizialmente molto litigiose, sono costrette a scoprire i valori dell’amicizia e della solidarietà, non tanto per imposizione politica quanto per semplice necessità di sopravvivenza.

Margarida continua a dichiarare la sua “innocenza” ma nessuno le vuole credere, né la Comandante né le compagne. Ma è molto utile: sono tutte cittadine, lei sarà anche una campagnola analfabeta ma sa riconoscere le piante velenose e gli animali pericolosi, sa ottenere pasti mangiabili dalle poche riserve fornite e anche usare un machete. E adora ricamare: si fa scrivere su un fazzoletto da una compagna il diario del viaggio e ricama le parole con fili multicolori. Viene anche punita quando, per gratitudine verso Suzana, una ballerina che l’ha presa sotto la sua protezione, le ricama sull’uniforme un piccolo fiore: uniforme significa uguaglianza, nel campo devono essere tutte uguali.

Finalmente dopo molti mesi un’anziana mammana del campo la “visita” e certifica la sua verginità: Margarida diventa una beniamina, quasi un simbolo di riscatto per tutte. La severa Maria João accetta di rimandarla a casa. Questa decisione significherà purtroppo una tragica fine per Margarida, ma anche l’inizio di una nuova solidarietà tutta femminile fra soldatesse e prigioniere.

Il regista e documentarista Licinio Acevedo, già vincitore nel 2003 e 2008 al Festival di Biarritz, ha scritto e diretto questo film con autentico affetto. Pur col limite del film di genere riesce con abilità a non annegare nel mare di purtroppo inevitabili stereotipi: c’è la Comandante severissima, quasi feroce, che piange quando legge una lettera del fidanzato che la pianta e c’è la prostituta materna e gentile; quella sboccata e ribelle, quella che si vende per un pezzo di sapone e la spia che però si redime. Niente di nuovo perciò, ma l’ambientazione decisamente insolita e l’interpretazione convincente di tutte le interpreti ne fanno un film gradevole e interessante.

Ha poi il merito di raccontare fatti a noi del tutto sconosciuti, ma che nemmeno in Mozambico nessuno ricordava più: il film è uscito a Maputo un mese fa e i giovani erano stupiti e sconvolti, non avevano idea di quanto fosse successo nel loro Paese (e questo è solo un minuscolo tassello del mosaico) appena 35 anni fa. A ennesima conferma di quanto sia “fondamentale compito del cinema ricordare gli errori del passato. Ogni generazione ha il diritto di fare errori nuovi, ma ha il dovere di evitare quelli vecchi.”

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