Ecco la nostra recensione di qualche giorno fa dedicata al film che ha appena vinto il premio più ambito!

Battute finali del festival, ultime anteprime, sempre mattina presto ed è la volta di “La Fille de nulle Part”: una giovane viene picchiata sul pianerottolo di un palazzo ed un condomino la soccorre. Lui è un professore in pensione, lei una ventenne sola al mondo, con una cultura e un amore per i libri (che però non può permettersi). Michel sta scrivendo un libro e Dora trova le bozze, inizia a leggerlo ed a dare suggerimenti sino al giorno in cui, ripresasi, prende la porta. Lo scrittore perde l’ispirazione e viene sopraffatto dalla malinconia, la giovane che vive di espedienti ritorna però presto: nasce così una collaborazione ed una amicizia tra i due, le loro differenze ed il comune amore per la letteratura, la storia, i miti segneranno un’unione.

Entrambi soli ed in debito di affetto, i due si supporteranno con discrezione ed un pizzico di mistero. E’ così che dopo una prima ora piuttosto delicata e soprattutto coerente, la seconda parte si arricchisce di un pizzico di esoterismo facendo emergere il messaggio più profondo della pellicola. L’uomo, la religione, la necessità di una vita ricca di illusioni, quelle piccole vie di fuga che rendono la quotidianità più sopportabile e la realtà migliore. Una sorta di occhialini in technicolor che ci fanno apparire più belli e che quando li perdiamo ci pare di impazzire.

Il palcoscenico di questa storia è per lo più un domestico interno (peraltro è la vera dimora dello stesso regista), quella casa carica di ricordi che se inizialmente sono il traino a cui Michel si aggrappa, ora sono la zavorra che gli impedisce di vivere. Dora destabilizzerà questo equilibrio, la sua non-vita e farà emergere i fantasmi per scacciarli. Insomma, è aria fresca… e non a caso toglierà quello strato di polvere che copre le cose più importanti.

Tra dissertazioni di filosofia, analisi della storia e del Testamento, arriviamo al triste epilogo di una pellicola che fa di tutto per essere grande, che non vuole suscitare pietismo (verso le persone indigenti e/o gli anzani) e che passa da un approfondimento all’altro con dolcezza ed un pizzico di ironia e ciò piace al pubblico in sala. Se la sceneggiatura ha evidenti pregi e pare sorgere da una mano che sapeva dove andare, quella dietro alla macchina da presa scivola sull’impatto visivo di alcune metafore e sui primi piani di attori dallo sguardo piuttosto statico. Solo a posteriori scopriamo esserci la medesima persona: Jean-Claude Brisseau.

Dovendo ripensare agli altri concorrenti, colta da improvvisa bontà, credo che raggiunga la sufficienza nonostante le debolezze recitative ed un simbolismo di cui avremmo fatto volentieri a meno. Voto: 6–