Una strada, una pioggia incessante, una donna esanime (o incosciente) investita da un gruppo di giovani mentre occhi nascosti assistono silenti all’evento. Chi è la ragazza senza vita che abbiamo di fronte? Cos’è successo prima che il gruppo di scimuniti e boriosi ragazzetti facesse il disastro? O meglio, siamo sicuri che non fosse già avvenuto il peggio?

Il regista cinese Lou Ye, nome non nuovo ai frequentatori del Festival, inaugura la sezione Un Certain Regard di questa 65a edizione con un’opera dalle tinte decisamente gialle, dotata di suspense e bagnatissima che ruota intorno ad una manciata di personaggi: tre donne ed un uomo, per l’esattezza. Non ci vuole molto per comprendere che Lui sarà il fulcro intorno al quale ruoteranno le vite delle tre malcapitate, ma il motivo e le modalità riescono a stupirci.

Il film è imperfetto, inutile dire il contrario, ma è stato talmente demolito durante le proiezioni diurne che al nostro turno ci attendiamo solo il peggio, cosa che favorisce invece l’inaspettata godibilità delle due ore in sala. La nostra difficoltà maggiore è stata piuttosto distinguere durante i primi minuti i volti, dato che è noto come il tratto somatico orientale risulti confondibile ai nostri poco abituati occhi, ancora peggio se gli attori recitano spesso e volentieri sotto una pioggia scrosciante e nella loro lingua madre, allora l’impresa richiederà tutta la nostra concentrazione!

Barriere linguistiche a parte, questa è la storia di un uomo molto egoista (ed un poco stronzo) che non si nega nulla al punto da condurre non una, né due ma addirittura tre vite parallele, non crucciandosi troppo delle eventuali conseguenze che, peraltro, non si faranno attendere e saranno terrificanti soprattutto per gli altri. Il nostro uomo infatti sembra non avere una coscienza, ha solo una gran perseveranza nel perseguire il proprio benessere, il che lo porta ad agire senza mai porsi domande etico-morali e ciò comporta dei bei ribaltoni nella narrazione proprio dopo situazione c.d. prevedibili, e questo è un punto a favore del bistrattato film.

 

Una nota di merito va pure alla drammaticità mista a follia che si vede negli occhi delle due protagoniste che ci colpiscono per l’intensità e la credibilità, mentre lui è da sberloni a più riprese il che, di nuovo, denota delle abilità che non vogliamo riconoscere. La perdente, che è come si suol dire una vera “cornuta e mazziata”, poi è davvero perfetta, ma anche questo sembra non debba dirlo posti i tanti difetti della pellicola che spazzerebbero via gli eventuali pregi.

Il fatto che da esule il regista abbia vissuto negli Stati Uniti e non abbia sfruttato la sua permanenza per apprendere quelle tecniche che l’avrebbero reso un nuovo John Woo è forse ciò che desta maggiore stupore. Curioso invece scoprire come le situazioni di bigamia in Cina siano all’ordine del giorno quale paliattivo di esistenze insoddisfacenti. Troviamo invece normale conseguenza della globalizzazione il fatto che i nuovi ricchi tengano comportamenti strafottenti e credano si possa comprare tutto, impunità compresa: ciò non ha davvero più una cittadinanza precisa.

L’imperdonabile errore mi è parso di comprendere sia stato quello di proporre una pellicola noir, che mescolasse dramma e thrilling, tentando di confezionarla a mò di film impegnato più che fracassone imitando una filmografia non appartenente alla tradizione del suo paese d’origine (o di esilio). Col risultato che una buona idea, supportata da attori di teatro dalla grande presenza scenica, sia rimasta nel limbo frenata da un ritmo talvolta claudicante.