La voglia mancava del tutto, la curiosità se l’era data a gambe già da qualche ora, praticamente impossibile farla emergere, il fatto che sarebbe stata la quinta pellicola della giornata ad orario decisamente notturno ha demolito inesorabilmente qualsiasi speranza che ancora (forse) risiedeva in me. Troppo il battage pubblicitario, tante le critiche sentite nei corridoi, estremamente noto l’antefatto da cui la storia prende il via. La mia serata aveva tutti i presupposti per trasformarsi in una missione suicida.

Ecco il quadro: siamo a New York City, non in un’epoca qualsiasi bensì nel periodo successivo all’ 11 settembre dell’anno che oramai conosciamo tutti; protagonista un bambino (ed è fatto altrettanto noto che non sia una grande fan delle piccole grandi promesse del cinema); ciliegina sulla torta, la storia è basata su un romanzo che ha fatto vacillare anche i cuori più insensibili nato dalla penna di Jonathan Safran Foer, “Extremely Loud & Incredibly Close”, appunto. Inutile non ammetterlo, la voglia di dare forfait era altissima.

Poi, la fortuna di non attendere neppure un minuto al gelo, la poltrona vicina all’uscita che mi ha accolto a braccioli “aperti” e una chiacchierata per scacciare l’attesa hanno fatto il resto. Quindi, eccola li, la famiglia felice così come solo gli americani sanno mostrare in poche ed efficaci inquadrature, l’immancabile Tom Hanks che tanto sa far bene il buon padre di famiglia e Sandra Bullock che dismessi panni comici è qui una madre e moglie distrutta.

Come superare il trauma della perdita del padre quando si è troppo giovani per fare a meno di una tale importante figura? Come elaborare il lutto di una morte in diretta su scala planetaria? Il nostro piccolo eroe si aggrappa a ciò che alimentava il legame col padre ed ha deciso di intraprendere un’ultima, disperata esplorazione: una ricerca apparentemente impossibile che si rivelerà fondamentale per molte vite.

Oskar Shell è il vero eroe di questa storia, ancora una volta ci viene dimostrato come i bambini grazie ai loro istinti riescano a trovare soluzioni efficaci anche ai problemi più grandi. Il nostro piccolo sopravvissuto, figlio di una persona che stimolava la sua curiosità e il suo spirito di osservazione, anche in seguito ad una sospetta sindrome di Asperger, intraprende un viaggio attraverso Mahattan e con metodo matematico insegue una serratura che apra il contenitore dell’ultima sorpresa lasciatagli dal padre.

Vengono di fatto trattati tutti gli argomenti più importanti del genere umano: il difficile rapporto con i genitori da un lato e la delicata posizione del superstite dall’altro, l’evoluzione dei ruoli genitoriali; la perdita di una delle due figure fondamentali nella crescita di chiunque  prima che essa si compia; l’ossessiva necessità di una razionalizzazione degli eventi traumatici e l’importanza dei riferimenti durante la crescita e non. Perché, a onor del vero, tutti noi in certi momenti abbiamo bisogno di qualcuno, solo per un istante, il tempo di un respiro, così da riprendere le forze ed affrontare la battaglia quotidiana che è la vita.

L’autore, lo sceneggiatore e il regista sanno bene dove vogliono parare e non ci risparmiano neppure un colpo. Ma è proprio questo, forse, il maggior difetto di un’opera che non so dire se sia stata fedele al libro da cui ha preso spunto. Non riusciamo a venir coinvolti, percepiamo quanto lo schermo sia lontano e le molteplici e prevedibili scene non fanno che aumentare la distanza che ci separa da quanto accade a qualche metro da noi.

Forse un’opera un po’ più cruda o ancor più poetica avrebbe potuto essere più efficace, chissà … andrà meglio la prossima volta.