Once were Warriors, oggi sono Mad Bastards. Trascorsi vent’anni dall’uscita della pellicola neozelandese che scosse gli animi e turbò non pochi per la sua lucida e spietata analisi del degrado, dell’emarginazione, della situazione al limite in cui versavano nei tempi recenti gli aborigeni, coloro che una volta erano i “grandi guerrieri” Maori, il grido disperato che è entrato nella storia del cinema sembrerebbe trovare più di un punto di contatto con la poesia ricca di speranza dell’australiano “Mad Bastards” il quale ci presenta un’altra popolazione aborigena, dal glorioso passato, che ancora oggi vive ai margini della società.

Famiglie sfasciate, alcolismo, droga, violenza (tanta, troppa, che spesso sfocia in soprusi domestici), machismo, bullismo ed espedienti che portano dietro le sbarre persino giovanissimi pre-adolescenti, sono il quadro che ci viene presentato sin dai primi fotogrammi di questa pellicola che nasce dai racconti della tradizione orale aborigena e che si presenta al pubblico come cucita addosso ai protagonisti. Si perché il nostro primo attore, così come tutti i suoi compagni di viaggio, di fatto ci racconta la sua storia, che solo in un secondo tempo è divenuta una avventura interpretata davanti alla macchina da presa.

 

In effetti, nonostante non sia un professionista, è molto convincente il nostro TJ mentre attraversa l’Australia alla ricerca del figlio che non ha mai conosciuto. Una volta arrivato si scontrerà con i protettivi nonni e con la madre del giovane Bullet. Lui che voleva fare la cosa giusta ben presto si renderà conto di aver posto in essere solo l’ennesimo gesto insensato, ma realizzare ciò lo porterà, superata l’iniziale voglia di fuggire per l’ennesima volta, a crescere e ad assumersi responsabilità nuove grazie soprattutto ad un sodalizio tutto maschile con gli uomini-cardine della comunità in cui si trova, sigillato da un rituale, simbolico, decisamente laico battesimo nel fiume per mano dell’anziano saggio narratore di storie.

Ma la cosa più peculiare è senza dubbio l’io narrante, anzi chi tutto vede e commenta, che è un insieme di voci che danno vita ad una incredibile colonna sonora, senza la quale il film non esisterebbe… quando si dice che la musica può fare la differenza! Le canzoni sono vere storie e ci accompagnano, ritmando il nostro passo, attraverso i desolanti luoghi e le desolate vite che si susseguono sullo schermo. C’è armonia, le note sembrano avere un’anima a sè stante che vuole recitare e comunicare il suo pensiero, la quiete, la speranza… ma forse è solo la potenza di parole ed accordi dei Pigram Brothers.

 

Ogni inquadratura è una cartolina impreziosita da una luce (e una fotografia) rovente che esalta i magnifici scorci di un paese distante che non fa nulla per celarci la sua lontananza ed in cui gli aborigeni ne escono davvero in difficoltà, anche se muniti di tutto ciò che sia loro necessario alla “redenzione”. Perché quando addirittura la propria madre li ritiene dei falliti, pericolosi, irrecuperabili farabutti, devono per forza reagire ed ironicamente il medesimo orgoglio fonte di guai sino a ieri, oggi può avere l’effetto benefico di dare la spinta nella direzione giusta.
Questo potente, possente, caldo quasi ardente, canto poetico di speranza dimostra che il regista (autore e produttore) Brendan Fletcher ha talento da vendere. Non lasciatevelo scappare  :)