L’opera che ha stregato Cannes viene proiettata in piazza Grande a Locarno, prima di approdare a settembre nelle sale, e noi siamo tutti li in attesa di goderci il film che ha fatto furore, che ha consacrato il regista Danese Nicolas Winding Refn tra i big, grazie alla palma d’oro per la miglior regia, e che ha fatto fare il salto nell’olimpo hollywoodiano a Ryan Gosling. E… ed è così che, ovviamente, rimaniamo delusissimi!

Il gran capolavoro che entrerà nella storia della cinematografia io non l’ho visto, oppure non ho veramente capito un tubo al punto che in certi passaggi mi cadeva letteralmente la palpebra e ho dovuto attingere a tutte le risorse disponibili per mantenere lo stato di veglia. Sono rimasta quasi due ore in attesa che accadesse qualcosa che giustificasse tutti i titoloni letti negli ultimi mesi ma, ancora oggi, sono alla ricerca di una spiegazione: il film è soporifero, lento, fatto di silenzi, di espressioni “glaciali” e di sguardi carichi di un pathos visibile solo agli occhi di chi vuol percepirlo a tutti i costi.

E non va meglio durante la parte che dovrebbe essere adrenalinica: il fatto che gli avvenimenti ruotino tutti intorno ad uno stuntman d’alto livello, che arrotonda facendo da autista-palo durante le rapine, non implica automaticamente che la pellicola sia un action-thriller. Al contrario questa è una storia che si muove come se fosse in eterna modalità slow motion e, se per molti ciò sarebbe il segno univoco di quanto l’opera sia matura e di qualità superiore, per la sottoscritta è indicatore solo di voler far rivivere del cinema già visto e che si sperava di non dover più ritrovare col trascorrere degli anni.

Inizio a credere che la bravura del protagonista risieda nell’essere riuscito a rimanere impassibile e inespressivo per tutta la durata del film che, nonostante fosse di 95 minuti complessivi, talvolta pareva più lungo e straziante della versione integrale de L’anello del Nibelungo di Wagner che – pur prevedendo 15 ore di musica (lirica!) – per lo meno presenta una trama avvincente. Qui tutto è banale, ha un gran profumo di déjà-vu ed è sprovvisto di qualsivoglia guizzo. Il nostro solitario, riflessivo e perfezionista (anti)eroe, una volta che aprirà le porte alle emozioni (all’amore peraltro non corrisposto) vedrà sgretolarsi progressivamente le routine che gli permettevano di eccellere, inanellando una serie di sfighe che contageranno tutti coloro che lo circondano.

Tratto dal romanzo omonimo di James Sallis, definito pulp, di sicuro con una visione piuttosto pessimista dell’essere umano che, imbrigliato nella triste e cruda realtà della quale non si può liberare neppure volendo, è destinato ad essere un perdente, questo è un film in cui più della mancanza di contenuti o messaggi si soffre l’eccessiva assenza di vita e vitalità. Le immagini monocromatiche e cupe che ritraggono scialbi e tristi interni, popolati da volti spenti e senza vita cui si tolgono anche le battute (ultima possibilità di renderli vitali), comunicano sicuramente tristezza in chi guarda, ma potrebbero provocare smarrimento o addirittura lasciare un eccessivo vuoto e paiono quindi un azzardo.

Film impegnativo, curioso, da rivedere, ma assolutamente inadatto ad un primo appuntamento o a serata goliardica con gli amici.